Per tentare di capire quale sia l'idea di ricchezza nella cultura arabo-islamica del Medioevo può essere utile liberarsi da un fraintendimento tipico del mondo occidentale, ossia che essa si manifesti nella forma di un coerente pensiero economico. Tra X e XV secolo circa, la riflessione sui profitti derivanti dal commercio e dal credito appare ormai inquadrata all'interno di precise tipologie testuali, ognuna dotata di una peculiare logica analitica. Per brevità mi limito ad indicare i due ambiti principali. Da un lato, ci sono i testi del diritto islamico (sharia') nei quali ci si pone l'obiettivo di determinare la legittimità dei contratti alla luce dei dettati del Corano, della tradizione orale sulla vita di Maometto (gli hadith) e dell'interpretazione (fiqh) datane dalle principali scuole giuridiche sunnite. Dall'altro, c'è la trattatistica filosofico-politica degli specula principum e dell'oikonomika, ossia della "scienza della gestione della casa", che si riallacciano al pensiero greco. Questa dualità è in parte collegata ad un processo che, tra VIII e XII secolo, fa coincidere la sharia' con il sistema legale vigente nel Califfato abbaside e, in parallelo, espelle il ragionamento filosofico-teologico dall'interpretazione giuridica ortodossa. Spetta perciò alla letteratura fiqh confrontarsi con il problema del credito e della ricchezza che ne può derivare, in virtù dei precetti religiosi che condannavano la riba', identificabile in modo molto approssimativo con la proibizione del prestito a interesse. La soluzione adottata, già dall'VIII secolo e poi per tutto il Medioevo, risponde ad un'analisi casistica la cui logica è lontana dalla razionalità occidentale. È questa stessa logica a impostare, con il contratto di mudaraba – la commenda dell'Occidente medievale -, un sistema creditizio basato sul legame tra guadagno e rischio di perdere il capitale che avrà enorme successo nelle economie arabe. Nei testi di natura filosofico-politica invece si discute, spesso in termini elogiativi, della ricchezza che deriva dal commercio, senza addentrarsi nel sistema di contratti che ne è all'origine. Ciò non impedisce di sviluppare importanti riflessioni sulla natura del mercato e sui meccanismi di formazione del prezzo, né di provare a spiegare in termini razionali i divieti sanciti dalla sharia', sempre però tenendo ben distinte le competenze del giurista da quelle del teologo.
Riferimenti Bibliografici
- M. Campanini (a cura di), Studies on Ibn Khaldûn, Monza, Polimetrica, 2005;
- G. Ceccarelli, Il gioco e il peccato. Economia e rischio nel tardo Medioevo, Bologna, il Mulino, 2003;*
- F. Vogel, S.L. Hayes, III, Islamic Law and Finance: Religion, Risk, and Return, Leida, Brill, 1998.
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