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Rileggere i Dialoghi di Confucio significa misurarsi con le dense parole che quel testo ci consegna, parole che non hanno esatti equivalenti nella nostra lingua, e che tuttavia non sono incomprensibili enigmi. La parola chiave dei Dialoghi è ren, il vocabolo che vi ha il maggior numero di occorrenze. È l’ambito fondamentale a cui il discorso di Confucio costantemente si riconduce. Se ne sono proposte traduzioni svariate, quali “benevolenza”, “bontà”, “altruismo”, “amore”, e tuttavia qualsiasi resa, benché utile ad accostarvisi, non risulta pienamente soddisfacente. Essa viene così esplicitata dal Maestro: «Fan Chi domandò che cosa fosse ren. Il Maestro rispose: “Amare gli esseri umani”» (Dialoghi di Confucio 12.22). Ren si può rendere come il “senso dell’umanità”: un atteggiamento di mansuetudine e di benevolenza verso gli altri. Indubbiamente esso ci ricorda gli atteggiamenti verso il prossimo prescritti da altre grandi tradizioni, e tuttavia ha delle specifiche connotazioni sulle quali converrà brevemente soffermarsi. Ren configura un campo semantico vasto e articolato, la cui densità di implicazioni non può essere evocata senza richiamare il carattere che lo rappresenta nella sua suggestiva efficacia: esso affianca al pittogramma che raffigura l’uomo (ren) e che ne è omofono, l’ideogramma che simboleggia il due. Ren designa dunque “quanto è propriamente umano” nel suo concretarsi nell’ambito delle relazioni con gli altri: è il peculiare atteggiamento fondato sulla reciprocità cui si devono informare i rapporti con i propri simili e che trasforma i vincoli familiari e sociali in rapporti etici. Ren è universale e, al contempo, articolato e differenziato. Configura un orizzonte che tutti include, prescrivendo la mansuetudine verso tutti – «Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri» (15.23) – ma tale universalità non si traduce in una generica uniformità, bensì si inscrive nella specificità di ruoli determinati. «Amare gli esseri umani» dischiude nell’insegnamento di Confucio una dimensione globale, di sollecitudine per tutti, e insieme comporta molteplici e circostanziate sfaccettature: «Che il sovrano si comporti da sovrano, il suddito da suddito, il padre da padre, il figlio da figlio» (12.11). Il “debito amore”, dunque, è un atteggiamento che sottende ogni condotta, ma si esprime in modalità diversificate, che corrispondono a ruoli concreti – di padre o di figlio, di anziano o di giovane, di sovrano o di suddito. In tali ruoli concreti si disegna una gerarchia attinta alla tradizione: al padre, all’anziano, al sovrano compete l’autorità, mentre il figlio, il giovane, il suddito hanno il dovere dell’obbedienza. Un dovere ripetutamente affermato nei Dialoghi e del quale sono i rapporti interni alla famiglia a costituire il modello fondamentale. E nondimeno, diversamente da quanto vorrebbe una vulgata molto diffusa, l’obbedienza di cui qui si parla non è prona acquiescenza, così come il comando non è arbitrio dispotico: alla rete delle relazioni gerarchiche descritte nei Dialoghi presiede un’istanza indissolubilmente associata a ren: il senso della giustizia (yi). «Governare significa agire con rettitudine (zheng)» (12.17): ciò che legittima l’esercizio del potere per Confucio è l’adesione a un’istanza suprema di equità e coloro che lo detengono ne portano per intero la responsabilità. Ed è, del pari, l’adesione a tale istanza suprema di equità ad essere la linfa nuova dell’obbedienza: così è esplicitamente contemplato il caso in cui il ministro fedele può – anzi, deve – opporre al sovrano, nel caso che gli ordini di quest’ultimo contravvengano al senso dell’umanità e della giustizia, e tale opposizione si configura non come insubordinazione, ma come elevata espressione di lealtà (14.22). L’autentica obbedienza, lungi dall’essere inerte sottomissione, si definisce come un atto consapevole che implica giudizio e discernimento e che include anche il dovere di rimostranza. Dunque, il rispetto per la tradizione così frequentemente richiamato nel testo non equivale affatto a mero tradizionalismo: la tradizione a cui Confucio dichiara di ispirarsi viene continuamente riplasmata e riformulata e la devozione nei suoi confronti è soprattutto pietas nei confronti del senso dell’umanità che in essa si adempie, e che rischia di essere cancellato dalla violenza e dalla sopraffazione di un’epoca sulla quale incombono la barbarie e il caos: è la crisi radicale delle istituzioni e dei valori della Cina arcaica il contesto storico preciso da cui il discorso di Confucio prende le mosse. Lungi dall’essere conformistico, esso è un’appassionata difesa di un senso della giustizia minacciato, che in ogni tempo e sotto ogni latitudine va preservato. In ogni tempo e sotto ogni latitudine, per Confucio prioritario è riconoscersi figli, dei propri padri e delle proprie madri carnali, ma anche e soprattutto del senso dell’umanità e della giustizia che essi ci hanno affidato, affinché noi a nostra volta li affidiamo ai nostri figli, spirituali e carnali. Soltanto chi si riconosce figlio potrà divenire un maestro, ossia, a sua volta, padre. Questa filialità è un accogliere e un serbare il senso del legame che attraversa le generazioni, e che connette passato e futuro (2.11). Così intorno alla figura del Maestro si disegnano filialità e fraternità nuove, e si afferma la percezione di un legame solidale che connette tutta l’umana ecumene: «Tutti entro i quattro mari sono fratelli» (12.5).
(da A. Crisma, Omaggio a Confucio in occasione del capodanno cinese, in www.inchiestaonline.it, 19 febbraio 2013)
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