L’esperienza del secondo conflitto mondiale e le conclusioni a cui gli Alleati arrivarono al momento della ricostruzione rinviano a un punto di partenza obbligato su cui sarebbe sbagliato sorvolare. Il grande sconfitto di allora fu il centralismo di origine napoleonica, perché ormai associato a regimi totalitari come il nazismo e il fascismo che avevano cancellato ogni democrazia nei rispettivi paesi. A partire dalla fine degli anni quaranta, la forma di Stato centralizzato, nata nel 1861 e dominante anche nel resto d’Europa, ha cominciato a declinare per ragioni storiche e politiche profonde, cedendo progressivamente spazio a processi di decentramento, regionalizzazione, devolution o federalizzazione. Questa trasformazione istituzionale si è sviluppata ulteriormente in seguito, soprattutto nell’ultimo decennio dello scorso secolo. In Francia, in Spagna e persino in Inghilterra, paese centralista per eccellenza, è difficile ritrovare le tracce originarie del vecchio modello di Stato. E lo stesso accade anche per lo Stato federale, ossia per quella «cosa» che in realtà può ormai esistere anche senza il «nome» (federalismo). Un esempio? Il caso della Spagna, sicuramente più «federalista» dell’Austria, che invece si autodefinisce ufficialmente tale. Pur giungendo a conclusioni molto diverse anche noi guardiamo alla «cosa» che da almeno due decenni è in Italia al centro della discussione politica, andando ben oltre i suoi aspetti più strettamente costituzionali e domandandoci: perché stiamo passando a cuor leggero dal regionalismo burocratico della Prima Repubblica a un federalismo virtuale che, quand’anche non approfondirà le divisioni già presenti nel paese, darà comunque vita a un inevitabile centralismo di ritorno? (…)
É credibile oggi un’opzione a favore del federalismo, senza che nel corso della nostra intera storia unitaria sia mai stato modificato l’impianto dei plurisecolari poteri locali e senza che sia mai venuto meno il significativo divario in termini di infrastrutture e sviluppo tra le diverse aree del paese? Forse il federalismo potrebbe essere utile anche a noi, ridando vita a un’identità nazionale ormai completamente irrisa. In pratica le cose stanno diversamente e vi sono almeno tre ragioni che fanno del caso italiano un unicum a livello europeo, rendendone poco credibile il cambiamento oggi in corso. In primo luogo il paese ha ancora un assetto territoriale ad alto grado di frantumazione, che risale all’epoca dei comuni e che sinora non è mai stato modificato. Nell’«Italia dei mille campanili», nel 1871 i comuni erano 8382. Si ridussero durante il fascismo, salvo ricostituirsi in seguito all’avvio della Repubblica e sono pur sempre un bel numero (8101) anche oggi. In secondo luogo, la debolezza del localismo non dipende solo dai «troppi» comuni, ma dal fatto che questi sono anche troppo piccoli, perché circa il 70% ha una popolazione inferiore ai cinquemila abitanti e tutto ciò rende impossibile qualunque tentativo di introdurre efficienza nell’azione pubblica. Ben altro impatto ha invece avuto in Inghilterra la riorganizzazione, dove tra gli anni settanta e i novanta i distretti locali hanno enormemente accresciuto le rispettive densità abitative riducendosi da 1549 a 522, così come è accaduto in Danimarca, in Germania, in Belgio e naturalmente anche altrove. In terzo luogo, il nuovo articolo 114 della Costituzione afferma solennemente qualcosa di poco sostenibile, allorché recita: «la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane e dallo Stato». Ma davvero? Tutti insieme e tutti con la stessa dignità istituzionale? (…)
A differenza di ciò che è accaduto nel resto d’Europa, noi stiamo entrando nell’epoca del federalismo senza avere mai avviato una riorganizzazione del territorio e tutto ciò spiega anche gli ampi poteri conferiti ai comuni, con delle conseguenze che ormai si cominciano a sentire. Dal rifiuto dell’Alta velocità, sino alla realizzazione delle grandi opere, oppure ai nuovi tracciati stradali e ferroviari, gli esempi di conflitti con lo Stato non mancano. Ed è molto forte anche la tendenza opposta, che a volte mette capo a una vera e propria prevaricazione nei confronti dei governi locali.
(da M. Fedele, Né uniti né divisi. Le due anime del federalismo all’italiana, Roma, Donzelli, 2010, pp. XII-XIII, XV-XVII)
Il processo di forzata assimilazione degli ordinamenti giuridici e degli assetti istituzionali avviato fin dai primi plebisciti del 1859 è uno dei temi più avvincenti e per questo più dibattuti dalla storiografia. La piemontesizzazione "a vapore", che pure ha avuto il merito storico di costringere in tempi contingentati vaste aree della Penisola ad un’unificazione già di per sé ostica e problematica, ha per ciò stesso prodotto il sacrificio, avvertito chiaramente da vasti settori dell’opinione pubblica degli Stati preunitari, di elementi di specificità ‘regionale’ fissati da una tradizione considerata comunque idonea a rappresentare un fattore positivo per la costruzione di un senso comune di appartenenza, anche se restava vivissimo il controverso bisogno di ‘conservare’ tratti ordinamentali distintivi e rendite di posizione istituzionale (specialmente nelle città ex-capitali) assai difficilmente assimilabili con la realtà del nuovo Stato nazionale (…).
Le riforme che si sono succedute e quelle che si è tentato senza successo di avviare nei vari settori strategici del Paese – agricoltura, industria, istruzione, magistratura, apparati burocratici – hanno potuto essere lette anche come il frutto di un disegno teso a dare un volto coerente a un quadro tutt’altro che omogeneo di risorse umane ed economiche. Il tutto in un alternarsi di slanci liberali e persino ultra-liberistici e di strategie accentranti programmaticamente pianificatrici. Appare appropriata, pur se complementare con altre, una chiave interpretativa di quel percorso che veda nel discrimine tra "pubblico" e "privato", o per meglio dire, per quel che si volle o poté essere valutato come "pubblico" o come "privato", un efficace strumento di comprensione di certi fenomeni di mutazione genetica delle strutture giuridiche e istituzionali.
L’Emilia, con i suoi antichi ducati e le sue strutture decentrate ex-pontificie, assunse subito un ruolo di protagonismo, pur se precocemente frustrato, nei primi anni di piemontesizzazione: «Qui il paese è piemontese sino alla midolla dell’osso», ebbe a scrivere Marco Minghetti proprio nel 1859 e proprio parlando delle province emiliane. Qui dove più convinta e fattiva fu l’adesione al Regno sabaudo, venne vissuta, forse con maggior forza che altrove, la delusione per un percorso a tappe forzate che non volle o non seppe tener conto della marginalizzazione di alcune esperienze ‘regionali’ di grande momento per le comunità, fossero esse le esperienze della proprietà agraria o delle élites professionali urbane. Si tratta della mancata comprensione di resistenze troppo sbrigativamente tacciate di provincialismo se non addirittura di passatismo retrogrado, là dove alcuni passaggi di obbligata e necessaria modernizzazione non seppero neutralizzare gli interessi forti e determinati – malgrado le parole d’ordine di certo liberismo oltranzista – alla gestione monopolistica delle risorse del nuovo Stato.
(da E. Tavilla, Pubblico e privato tra unità nazionale e particolarismi regionali. Problemi giuridici ed istituzionali in Emilia tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè, 2006, pp. VII-IX)
Presiede: Maria Paola Guerra