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Nel primo capitolo del Manifesto del partito comunista scritto, insieme con Engels, nei primi del 1848, Marx, avanti di lanciarsi in una straordinaria esaltazione del «ruolo rivoluzionario» svolto «nella storia» dalla «borghesia» (e per «borghesia», chiosava Engels in una nota all’edizione inglese del 1888, si deve intendere «la classe dei moderni proprietari dei mezzi sociali di produzione»), riassume in breve il cammino che ha portato la «borghesia» da «terzo stato con obblighi fiscali sotto la monarchia» a ceto dominante. E approda alla famosissima formula: «Il potere politico dello Stato moderno è soltanto un comitato che amministra gli affari della classe borghese nel suo complesso». La formula è combattiva e prelude, in certo senso, alle misure da attuarsi con l’imminente (nella illusione dei due autori) presa del potere da parte del «proletariato». Misure che essi definiscono «interventi dispotici contro il diritto di proprietà» e miranti, attraverso la conquistata «supremazia politica», a «strappare alla borghesia tutto il capitale». Per i «paesi più progrediti» i due elencano dieci misure da attuarsi subito: la prima è l’«espropriazione della proprietà fondiaria», la seconda è l’«imposta fortemente progressiva», la terza l’eliminazione del diritto di eredità, segue la «centralizzazione del credito mediante una banca nazionale con monopolio esclusivo» e solo al settimo posto finalmente viene previsto l’«aumento delle fabbriche nazionali» (dunque non ancora l’abolizione dell’industria privata bensì il suo ridimensionamento grazie alla creazione di un concorrente reputato irresistibile, cioè le aziende statali). Tutto ciò è, beninteso, un primo passo («in un primo tempo»), poi si intravede, in fondo alla strada, l’abrogazione delle classi, «il libero sviluppo di ciascuno» etc. Ma per tenerci a quello che i due autori credevano fosse l’‘oggi’ o l’immediato ‘domani’, importa rilevare che la diagnosi di partenza è che il potere sta nelle mani dei “padroni del vapore” e che però solo con l’attuazione drastica di «interventi dispotici contro il diritto di proprietà» tale potere passerà alla nuova classe dominante. La quale conquisterà il potere politico per attuare tale programma grazie al «suffragio universale», o, come essi dicono, con la «conquista della democrazia» (…).Ma qualcosa non ha funzionato. Il suffragio universale, alla fine conquistato ha più e più volte deluso chi lo aveva propugnato, ha mancato i previsti effetti che si sono ora ricordati. Le urne sono divenute, al contrario, lo strumento di legittimazione di equilibri, di ceti, di personale politico quasi immutabile, non importa quanto diversificato e come diviso al proprio interno. Chi però, retrospettivamente, riconsideri i 160 anni di storia che ci separano dal 1848, non può non rilevare il ciclico riaffacciarsi, quasi a ogni tornante, quasi a ogni «dura lezione della storia», della domanda: e se il vero potere fosse altrove?
(da L. Canfora, La natura del potere, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 7-9)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
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