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L’avvento della modernità ha spezzato, tra le altre cose, il senso di continuità, o meglio, di solidarietà intima e profonda tra le generazioni, lasciando negli individui – giacché l’individualità assurge a valore superiore all’esser membro della comunità – un senso di unicità non solo sincronica ma anche diacronica. Ne deriva non tanto l’ovvio senso di frustrazione relazionale e di solitudine affettiva (indiscutibili piaghe della vita urbana contemporanea), quanto soprattutto un ossessivo bisogno di autorealizzazione come se il da farsi, lo scopo dei molti impegni, e lo stesso significato dell’esistenza dovessero compiersi ed esaurirsi nell’arco temporale della mia unica vita, e dunque ricadessero interamente sulle mie spalle di individuo, tutt’al più insieme ai miei pari in senso sincronico, qui e ora (la mia azienda, la mia categoria, il mio partito, la mia famiglia ecc.). Raramente ci pensiamo come una generazione tra le altre, con alcune precise responsabilità verso chi ci ha preceduto e altre precise responsabilità verso chi ci seguirà. Oltre l’orizzonte dei nostri figli e nipoti, che la natura ci fa percepire come un’estensione di noi stessi, è difficile pensare. Anche la fede religiosa – che per secoli fu elaborata e custodita come eredità da trasmettere fedelmente «di generazione in generazione», concretamente da padre a figlio, da madre a figlia, da maestro a discepolo – è oggi largamente una risposta a un bisogno individuale intra- più che intergenerazionale. Idem per la cultura, nel senso largo del termine. […]
Problematica a mio avviso è la perdita del sentirci parte di una continuità transgenerazionale, e rischioso il fatto che guardiamo a noi stessi e ai nostri problemi senza tenere in considerazione le nostre responsabilità etiche verso i morti e verso i non nati, senza far conto dei loro diritti. Sono responsabilità etiche, perché né l’economia né i nostri sistemi giuridici né la stessa politica riescono ancora a dire qualcosa di significativo a questo riguardo. Le religioni abramiche, invece, qualcosa da dire l’avrebbero, qualcosa di etico e di teologico insieme. Per questo nelle liturgie religiose, nei salmi, nei testi sacri ricorre l’espressione le-dor va-dor, da una generazione all’altra, da un figliare all’altro, sottolineando che fare figli significa dar vita alla prossima generazione, che mettere al mondo nuove creature è un atto di fede e un dovere essenzialmente religioso, perché Dio non ha fatto alleanza con una generazione soltanto ma con l’insieme delle generazioni, con un tu collettivo nel quale nessuno può isolarsi. […]
Anche il compito di fare migliore il mondo e di redimerlo – compito che nella tradizione giudeo-cristiana è definito messianico – ricade non su una sola generazione ma sulla catena solidale e consapevole delle diverse generazioni, in «alleanza tra loro» per realizzare l’«alleanza con Dio» (Genesi 7-9 è la prima alleanza tra Dio e tutto ciò che ha vita, alleanza mai revocata e mai sostituita). Riscoprire la solidarietà intergenerazionale significa assumerci la nostra parte di responsabilità nel conservare la vita sul pianeta, nel migliorarne anzi la qualità e nel trasmettere quei «beni culturali» che nel frattempo abbiamo elaborato. […]
Alzando la loro voce contro i rischi di distruzione e dissipazione delle risorse del nostro pianeta, Günther Anders e Hans Jonas hanno profeticamente denunciato il nostro peccato di hybris (arroganza) verso le generazioni assenti, passate e future. Essi non fanno che richiamarci, nell’era dell’atomo selvaggio e delle tecnologie incontrollabili, all’etica della responsabilità implicita nell’alleanza tra Dio e Noè, ben riassunta da Rabbi Tarfon: «Non sta a te portare a compimento l’opera, ma non sei neppure libero di astenertene» (Pirqè Avot, 2,19). Per questo Hillel, contemporaneo di Gesù, insegnava: «Non separarti dalla comunità». Quella delle toledot, la comunità solidale delle generazioni.
(da M. Giuliani, Le tende di Abramo. Ebraismo, cristianesimo, islam: interpretare un’eredità comune, Trento, Il Margine, 2007, pp. 245-248)*
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