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La seconda metà dell’Ottocento è l’epoca in cui si formano quelle che oggi sono le più importanti collezioni d’arte orientale, italiane ed europee. Collezioni in taluni casi sporadiche e casuali, messe insieme dalla curiosità per il diverso e l’esotico o dall’accumulazione di doni ufficiali ricevuti in veste diplomatica, ma senza un criterio coerente di selezione degli oggetti da parte del viaggiatore-collezionista; in altri casi, invece, dalle quali traspare la consapevolezza e la volontà precisa di rappresentare in modo significativo la cultura e l’arte dell’Asia Orientale. Del primo tipo è la collezione Pansa, conservata, separatamente dagli album fotografici, presso i Musei civici di Reggio Emilia. Del secondo tipo sono la vastissima collezione del principe Enrico di Borbone (1851-1906), raccolta tra il 1887 e il 1889 durante il suo viaggio intorno al mondo, che egli documenta, come fece la contessa Pansa, in un ricchissimo diario, e che ha dato vita al nucleo del Museo d’arte Orientale di Venezia. Ma Enrico di Borbone non lasciò, a quanto risulta, album fotografici, bensì oggetti che testimoniano il suo girovagare attento e colto: tessuti di straordinaria fattura, rotoli dipinti, silografie policrome e libri illustrati, lacche, ceramiche, armi e armature giapponesi, cinesi e dal Sud-est asiatico. Opere d’arte e di artigianato di altissimo pregio insieme a manufatti popolari, tanto interessanti da un punto di vista etnografico e antropologico quanto le foto che illustrano usi e costumi esotici degli album Pansa.
Anche la collezione del Museo d’arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova è del secondo tipo e della stessa epoca. Bronzi, dipinti, silografie policrome, lacche, ceramiche, tessuti e sculture furono messi insieme dallo stesso Chiossone (1833-1898) tra il 1875 e il 1898 durante la sua lunga permanenza in Giappone, dove assunse il ruolo di responsabile del settore incisioni dell’Officina Carte e Valori del Ministero della Finanza su invito del governo Meiji. Così come fu invitato dal governo nipponico a insegnare scultura presso il nuovo Istituto d’arte di Tokyo Vincenzo Ragusa (1841-1927), a cui si deve la collezione giapponese di oltre 4000 oggetti che egli raccolse tra il 1876 e il 1882, oggi conservata presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma assieme ad altre raccolte coeve provenienti dalla Cina, dal Tibet, dall’India, dalla Birmania, dall’Oceania. Il diario del conte Enrico Hillyer Giglioli aggiunge un altro tassello a queste collezioni dall’Estremo Oriente fornendo informazioni non solo sul viaggio, ma anche sulle fotografie che egli collezionò in Giappone, conservate nello stesso museo romano. A Firenze, in una splendida palazzina, Frederick Stibbert (1838-1906) creò il proprio museo che ospita migliaia di ceramiche, porcellane, costumi e armature dal Medio ed Estremo Oriente e pure testimonianze di arte europea e americana, frutto di una instancabile curiosità. Poté farlo con un enorme dispendio di denari. Propri.
Sono questi gli esempi delle più ricche collezioni orientali del panorama italiano, ma se ne potrebbero citare molte altre più contenute o più specifiche sparse in tante istituzioni pubbliche e raccolte private. Mentre altrettante saranno certamente ancora da scoprire. Ciò che vale la pena di sottolineare è comunque come il significato dell’album fotografico fosse parte, all’epoca, di un fenomeno sociale più ampio legato all’orientalismo, diffuso in tutta Europa nella seconda metà dell’Ottocento e che portò al collezionismo in tutti i settori della produzione artigianale e artistica, oltre che a una rivoluzione nelle tecniche e nelle modalità pittoriche degli artisti occidentali. Si pensi al collezionismo delle silografie del Mondo Fluttuante che contagiò Parigi e in particolare gli artisti impressionisti e post-impressionisti.
Sono numerosi gli scambi epistolari in cui Manet, Monet, Van Gogh, Degas esprimono gratitudine verso gli amici che procuravano loro silografie e libri illustrati giapponesi di maestri come Utamaro (1753-1806), Hokusai (1760-1849), Toyokuni (1769-1825), Hiroshige (1797-1858). Le loro parole sono sempre di stupore e ammirazione per queste immagini dai colori piatti, brillanti, dalle inquadrature asimmetriche, dove il soggetto quasi sempre si trova spostato lateralmente, piuttosto che in posizione centrale, e in cui non vige la regola prospettica quanto una profondità regolata per piani sovrapposti. Un’espressività completamente diversa da quella europea, che invitava alla sperimentazione di nuove vie artistiche. E di fatto collezionare significò per quel periodo aprire lo sguardo al diverso, assimilarne i nuovi canoni estetici e scoprire una dimensione della natura prima sconosciuta che si rivelò poi nei paesaggi di Van Gogh, nella serie delle ninfee e nella struttura del giardino di Giverny di Monet, nelle campiture piatte di Lautrec.
(da R. Menegazzo, Viaggiatori, fotografi e collezionisti nell’Oriente di fine Ottocento, in AA.VV., Viaggiatori, fotografi, collezionisti nell’Oriente di fine Ottocento, Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, 2013, pp. 24-26)