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I due principali pensatori del giudaismo medievale, Jehudah HaLevi e Maimonide, raccolgono il messaggio della pagina finale della Torah (Deuteronomio/Devarim 34) dove si narra la morte del profeta, «Colui con il quale Dio parlava faccia a faccia come un uomo parla con un uomo» e convergono nel celebrare Mosè come il maggiore dei profeti. Nei suoi tredici principi di fede ebraica, inclusi nell’introduzione al decimo capitolo di Sanhedrin (nota come il Pereq cheleq), Rambam – acronimo di Rabbenu Moshè ben Maimon, Maimonide appunto – dopo aver spiegato l’esistenza, l’unicità, l’incorporeità, l’eternità e l’esclusività cultuale del Dio di Israele, illustra il valore di verità della profezia e il primato, ossia l’eccellenza, di Mosè. Quest’ultimo principio, il settimo, dice: «Credo con piena e sincera fede che la profezia di Mosè, nostro maestro, è indubbiamente vera e certa e che egli fu il maggiore dei profeti venuti prima e dopo di lui».
Forse in quest’espressione c’è una polemica contro cristiani e musulmani, che limitano l’autorità mosaica – e dunque il valore della Legge – a un breve periodo della storia, la quale ha poi visto profeti più grandi, Gesù per i cristiani e Muhammad per i musulmani, capaci di superare e obliare la grandezza del loro stesso modello biblico. Rambam precisa in che senso Mosè sia il maggiore: nessun altro uomo ebbe, né mai avrà, di Dio una maggiore conoscenza, dono che lo elevò alla condizione degli angeli, secondo gli standard epistemologici del tempo intrisi di filosofia aristotelica, per cui di Mosè si poteva dire che «durante le sue percezioni, si annullavano in lui le facoltà immaginativa e sensitiva e si affievoliva la facoltà appetitivo-stimolativa, diventando un’intelligenza pura». È un linguaggio lontano dal nostro orizzonte culturale e dalle nostre categorie cognitive, soprattutto religiose; nondimeno resta una preziosa testimonianza dell’assoluta centralità di quest’uomo, il quale, per quanto grande e superiore, non venne mai adorato come un dio, o un semi-dio, o fatto oggetto di culto (questo è il senso dell’annotazione: nessuno ha mai saputo, né sa tutt’oggi, dove si trovi la sua tomba, onde evitare la tentazione di correre a essa ed elevarla a tempio). Il culto della personalità, fosse pure verso il maestro più autorevole, è infatti una forma di idolatria.
Anche Jehudah HaLevi, anteriore di qualche decennio al Rambam, celebra Moshè rabbenu sia nel suo capolavoro filosofico Il re dei khazari, sia nell’innario religioso. E se nel primo testo esalta il profeta degli ebrei agli occhi del re pagano, in procinto di convertirsi, come un essere «il cui grado è distinto in se stesso dal grado degli altri uomini», capace di morire «volontariamente», se così si può dire, nelle poesie religiose emerge invece il lato più simpatetico e umano, che connette le tre buone guide di Israele – Mosè, Aronne e Miriam – ai luoghi dell’anima che il poeta-filosofo vorrebbe, dalla terra di Spagna, visitare prima di morire. Un breve poema esalta il monte Abarim, tra le cui cime v’è il Nevo, perché in esso trovò sepoltura «l’eletto tra gli uomini», sì che la terra che lo accolse divenne «l’eletto tra i sepolcri». «Se non lo conosci – dice il poeta rivolto al monte – chiedi al Mar Rosso che fu diviso in parti, oppure chiedi al roveto e al monte Sinài; essi ti risponderanno: fu fedele alla missione di Dio e non era un uomo di parole!».
Era un uomo d’azione, sanguigno in gioventù, ma imparò l’ascolto e la condivisione e fondò il suo carisma sull’umiltà e non sulla prepotenza. E tuttavia, per quanto grande sia stata la sua profezia, per quanto carismatica la sua leadership presso il popolo e per quanto intima la sua relazione con Dio, la tradizione insegna a nome di rabbi Elizer ben Jaacob: «Non vi è una generazione in cui non vi siano uomini come Abramo, una generazione in cui non vi siano uomini come Giacobbe, una generazione in cui non vi siano uomini come Mosè, una generazione in cui non vi siano uomini come Samuele» (Bereshit Rabbà, 56, 7).
(da M. Giuliani, Il bastone di Mosé. Profezia e potere nel monoteismo ebraico, Trento, Il margine, 2012, pp. 190-192)*
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