Manfredini legge da Jean Genet

  • lunedì 23 Aprile 2007 - 21.00
VivaVoce

«Ho cominciato in prigione a scrivere cinque libri, non sei, ma cinque. E scrivere è sempre parlare dell'infanzia. È sempre qualcosa di nostalgico. Almeno per la mia scrittura e la scrittura moderna, principalmente. Lei sa tanto quanto lo so io, o forse meglio di me, che la prima frase di tutta l'opera di Proust inizia così: "Longtemps je me suis couché de bonne heure". E racconta tutta la sua infanzia, che dura millecinquecento o più di duemila pagine. Ebbene, quando scrivevo, quando ho cominciato a scrivere, avevo trent'anni. Quando ho finito di scrivere ne avevo trentaquattro, forse trentacinque. Ma era un sogno. In ogni caso, era una fantasticheria. Avevo scritto in prigione. Una volta libero, ero perso. Non mi sono trovato realmente, nel mondo reale, che in questi due movimenti rivoluzionari, le Pantere Nere e i Palestinesi. E allora mi sono sottomesso al mondo reale. Voglio dire, bisogna fare questo, ora, non più ciò che hai fatto fino a ieri, in breve, avrei agito in funzione del mondo reale, non più in funzione di quello grammaticale… Nei termini in cui si contrappongono il mondo reale a quello irreale. Sicuramente, se si spinge più in là l'analisi sappiamo che anche il fantasticare appartiene al reale. I sogni sono realtà. Ma si sa anche che si può agire sul fantasticare in modo illimitato. Serve una diversa disciplina, che non è la disciplina della sintassi.»

(Jean Genet, Conversazione con Rudiger Wischenbart e Layla Shahid in Palestinesi, Stampa Alternativa, Roma, 2002) 

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