La comprensione dell’utopia politica platonica e della successiva critica aristotelica è comprensibile solo a partire dalla delineazione delle teorie antropologiche e sociogoniche rivali del V secolo: da un lato, le teorie della socializzazione umana come motivata dalla necessità dì collaborazione per soddisfare i biso-gni di sopravvivenza, e la seguente origine delle norme di giustizia come regole di collaborazione (De-mocrito, Socrate, Anonimo di Giamblico); dall’altro, la concezione ‘hobbesiana’ della natura umana co-me rivolta alla sopraffazione e alla violenza. Naturalmente esistono “teorie della giustizia” derivate dalla antropologia della violenza: la giustizia come funzione del potere (Trasimaco), come imposizione della “legge del più forte” (Callicle), o infine come legame fra i deboli dettato dalla paura (Glaucone nel Il libro della Repubblica). La teoria platonica della giustizia si profila tanto come risposta alle posizioni basate sulla violenza quanto come replica all’incapacità socratica di integrare la questione del potere in quella della giustizia: i libri IV e V della Repubblica trasformano la domanda sulla giustizia in quella su “che cosa è un potere giusto”, su quali ne siano le condizioni sociali, istituzionali e morali. La domanda se il modello di giustizia delineato nella Repubblica fosse effettivamente praticabile era già stata posta da Pla-tone nelle Leggi; a questa domanda Aristotele dà una risposta negativa nel secondo libro della Politica. Il progetto platonico non solo è impraticabile ma del tutto indesiderabile, perché esso confligge con i dati essenziali della natura umana, il cui legame costitutivo è rivolto alla privatezza familiare e patrimoniale. Sulla base di questa critica, Aristotele propone una teoria della giustizia a base naturalistica, però solida-mente fondata su presupposti storico-antropologici, che rendono il “normale” sociale al tempo stesso “na-turale” e “normativo”. Al contrario, il fondamento naturalistico dell’etica stoica assume a principio non la normalità dell’ethos pubblico ma l’ordine provvidenziale e fatale del cosmo. Si ha così una rottura fra piano individuale della giustizia e contesto politico in cui si pone la questione della vita giusta e quindi felice.