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Uno studio dell’oriente immaginato dai romantici deve fare i conti con un oggetto già conosciuto e intriso di cliché, nonché con un’idea dell’oriente come terra di visioni magiche, oggetti preziosi, sentimenti e desideri ingovernabili, sogni conturbanti e perturbanti di sensualità e violenza. Tale oriente sarebbe infatti «romantico» in quell’accezione metastorica del termine per cui anche le Mille e una notte sono espressione di un romanticismo eternamente ricorrente, connaturato all’immaterialità e al sogno, al prevalere del sentimento e dell’irrazionale sulla ragione.
Da qui si ricava una mappa ben delineata, e su scala ridotta, dell’immaginario orientale elaborato dalla letteratura britannica fra Settecento e Ottocento. Intensamente romantico è, in questa prospettiva, l’orientalismo dei poemi byroniani, popolati da eroi ribelli – corsari, avventurieri e rivoluzionari –, despoti spietati e sensuali eroine gelosamente custodite in un harem o coinvolte nei destini avversi delle figure maschili. Lo stesso Byron, così come ci è stato tramandato dal famoso ritratto del 1813 in costume albanese ad opera di Thomas Phillips, incarna quel desiderio di mimesi di un oriente fatto di passioni tragiche, godimenti intensi e tensioni estreme, da sempre irresistibile per l’immaginario occidentale. Così pure il «Royal Pavilion» di Brighton, residenza voluta dal Principe Reggente e ristrutturata fra gli anni 1810 e 1820, è un oggetto emblematico della cultura orientalista romantica, fantasia architettonica e decorativa in cui India e Cina si fondono in complessi arabeschi, più imponente ed opulento di qualsiasi padiglione chinoiserie concepito e realizzato nel diciottesimo secolo. Fortemente romantico è, in questo senso, anche il romanzo Vathek (1786) di William Beckford, in cui la novella orientale di stampo settecentesco inizia a slittare verso posizioni più ambiguamente e ironicamente moraleggianti e verso un immaginario dell’estremo e dell’eccesso che è già parte delle sfrenate fantasie orientaliste dell’epoca romantica. (…)
L’oriente è innanzitutto ciò che eccede i limiti conosciuti dell’occidente e, simultaneamente, è eccesso di significato, esplosione del fantastico, ridondanza di oggetti e decorazioni, di energia e passioni. È tale eccedenza a far sì che l’oriente romantico non rientri mai interamente nell’ambito di un «romanticismo» decorativo e irrilevante. Certo, da una parte, l’eccesso conferma l’immagine dell’oriente come espressione dell’irrazionale, del sublime e dell’incontrollabile, o come esplicitazione geografica delle profondità dell’anima romantica e del suo anelito di libertà. D’altra parte, però, la sovrabbondanza e la produttività eccessive dell’immaginario orientale sono anche riconducibili al principio di un’economia dell’orientalismo romantico, ovvero di una struttura retta da precisi equilibri e meccanismi culturali, ma anche, paradossalmente, di un’economia dell’eccesso, da intendersi come rapporto di scambio e commercio di idee e prodotti fra oriente e occidente.
L’oriente romantico è indissolubilmente legato a quel complesso di immagini, miti e narrazioni da sempre importati in occidente assieme ai manufatti, alle merci e ai prodotti esotici dalle civiltà asiatiche. In altre parole, esiste un rapporto strettissimo fra la creazione di immagini orientali e il desiderio di penetrare i mercati orientali e di appropriarsi delle loro merci preziose, cosicché quell’oriente di leggenda che Jacques Le Goff ha chiamato un «orizzonte onirico», intriso di irrazionalità e mito e sotteso alla cultura occidentale dal Medioevo in poi, funziona e si sviluppa all’interno di un sistema di scambi economici. Questo «mondo ambiguo di meraviglie allo stesso tempo avvincenti e spaventose» è più di un semplice «ricettacolo di sogni, di miti, di leggende». Ad esso infatti corrisponde un intreccio fra dimensione mitica – il dominio del segno narrativo – e una dimensione materiale fatta di oggetti, prodotti e materie prime, tanto da porsi come un «orizzonte per metà reale e metà fantastico, metà commerciale e metà mentale, legato alla struttura stessa del commercio dell’occidente medievale, importatore di prodotti preziosi lontani, con le sue risonanze psicologiche». Punto di incontro fra dimensione «onirica» e dimensione commerciale, l’oriente si situa in una continuità fra immaginario e materialità, fra il desiderio dell’oggetto altro e quello delle immagini e dei miti dell’alterità.
(da D. Saglia, I discorsi dell’esotico. L’oriente nel romanticismo britannico. 1780-1830, Napoli, Liguori, 2002, pp. 3-6)