La Prima Repubblica ha un significato in quanto esprime due caratteri peculiari. Sotto il profilo geopolitico e della sua collocazione nel sistema internazionale, essa è un semiprotettorato; sotto l’aspetto politico-istituzionale, è una democrazia consociativa. Per quanto attiene alla cronologia, tale regime si prolunga per quasi mezzo secolo, dal 1946 al 1992, anno in cui entrambi i citati caratteri perdono irrevocabilmente di pregnanza, tanto da generare nella percezione pubblica un clima da passaggio d’epoca. Non una cesura netta, che può darsi solo negli alambicchi degli scienziati della storia. Epperò il sentimento, confortato da una corposa fenomenologia, che il doppio paradigma – semiprotettorato e democrazia consociativa – sia decaduto (il primo più del secondo). (…)
Con il termine forse troppo icastico di «semiprotettorato» descriviamo la specifica limitazione di sovranità della Repubblica italiana durante la guerra fredda fra Usa e Urss. Il paradigma esterno ha tracciato le coordinate strategiche che le forze politiche «nazionali» non potevano né quasi mai volevano eccedere. Le virgolette significano qui che i maggiori partiti italiani, per quanto radicati nella nostra cultura e nella nostra società, agivano sotto la protezione del rispettivo sponsor esterno – l’Unione Sovietica nel caso del Pci, gli Stati Uniti e la Chiesa cattolica nel caso della Dc. Da essi ricevevano ispirazione politico-ideologica e supporto finanziario. A loro volta, a seconda delle circostanze e dei mutevoli rapporti di forza, sia il Pci che la Dc sperimentarono le opportunità di una relativa autonomia, fino a sfidare più o meno apertamente le potenze di riferimento. Gli opposti caratteri dei regimi americano e sovietico -oltre alla nostra collocazione nell’emisfero geopolitico occidentale – determinavano le differenze nei modi di influenza delle due superpotenze, rivelate dal fatto che ai primi la Dc, in sintonia con la maggioranza degli italiani, cercava, in massima, di aderire, mentre ai secondi il Pci riuscì sovente a sfuggire. L’influenza americana era percepita come politicamente perniciosa solo dalla pur vasta sinistra estrema – soprattutto dai suoi intellettuali – e dai fascisti. Culturalmente, 1’americanofobia si estendeva a buona parte del mondo cattolico, che però fruiva della protezione americana e non aveva intenzione di ripudiarla. Mode e culture d’oltreoceano facevano breccia financo nei cuori, nelle menti e nei portafogli di molti comunisti – dal cinema hollywoodiano al consumismo, da «Topolino» a Dallas. L’americanizzazione del quotidiano in Italia non ha paragoni con altri paesi europei, nemmeno con l’ancor più strategico semiprotettorato tedesco-occidentale, dove pure la barriera linguistica agiva assai meno. Nella penisola tutto ciò che è americano cessa di essere percepito come straniero (…).
Di più, i partiti della Prima Repubblica, salvi missini e monarchici, evitavano il riferimento alla nazione come fonte di legittimità e di ispirazione. Per quanto evocata nella Costituzione del 1947, nella nostra cultura la nazione come idea regolativa della politica non aveva dignità. Essa era storicisticamente bollata come residuo di un funesto passato, peggio come espressione di un nazionalismo goffo quando non pericoloso; in breve, era considerata sinonimo di nostalgia imperial-fascista. Ben lontana dal proporsi come espressione della gallicana Nation – di cui esprimeva semmai un contromodello – poco sensibile alla bussola anglosassone del national interest, la nostra democrazia aderiva molto più al sistema internazionale da cui era protetta che a un’identità nazionale rimossa, affidata alla protocollarità delle cerimonie ufficiali o all’utopismo neofascista. La parola «patria» o non significava nulla o rappresentava territori mentali opposti a seconda che a pensarla – più raramente a pronunciarla – fosse un comunista, un democristiano o un fascista. (…)
In effetti, l’Italia era molto più di una marca di frontiera occidentale. Per tutta la guerra fredda siamo stati un soggetto debole, ma una posta in gioco importante nella contesa fra i due blocchi. Se fossimo stati una nazione più solida, più autonoma, e meno rilevante, non avremmo ricevuto tanta attenzione da parte del maggiore alleato. La lettura statica delle carte politiche del continente non ci consente di cogliere la complessità del nostro status internazionale. Solo una analisi dinamica, multiscalare, rivela la quadruplice radice geopolitica della penisola e ci aiuta a capire perché gli americani la considerassero una base avanzata da proteggere contro ogni cambio di campo. Fino al triennio 1989-1992 – quando si consuma la disgregazione dell’impero moscovita e della stessa Unione Sovietica – convivono e confliggono nella penisola quattro lealtà incrociate, riferite, in diverso modo e misura, a Stati Uniti, Unione Sovietica, Santa Sede e – last and least – Repubblica italiana.
(da L. Caracciolo, Terra incognita. Le radici geopolitiche della crisi italiana, Bari-Roma, Laterza, 2001, pp. 4-5, 7-11)*
In paesi come l’Italia, il cui allineamento atlantico si accompagnava alla presenza di un forte partito comunista, lo scontro ideologico era continuo e diffuso in ogni ganglio della società, permeava sia il discorso quotidiano di milioni di cittadini sia la vita politica, e spesso evidenziava tensioni nelle tattiche anticomuniste tra i partiti di governo e l’alleato americano, che avrebbe voluto una maggiore radicalità nella repressione dei comunisti e delle loro organizzazioni politiche, sindacali o ricreative. Ma questo peculiare tipo di guerra fredda veniva combattuta soprattutto sulle raffigurazioni della società e del suo futuro. A partire dal Piano Marshall, e poi lungo tutto l’arco della formidabile crescita economica attivatasi in Europa occidentale, il discorso occidentale fu incentrato sul nesso tra democrazia e prosperità. Utilizzando l’immagine seducente del benessere americano (uno degli slogan più usati era «anche voi potete essere come noi») si esaltava un nuovo modello produttivo e di consumi capace di superare la scarsità, stemperare i conflitti di classe e integrare tutti i cittadini in una società ricca e liberale. La sua attrattiva era forte, soprattutto tra le nuove generazioni, le donne e tutti i soggetti che dall’iniziale benessere dei consumi che si cominciava a intravedere potevano sperare in una propria emancipazione da ruoli tradizionalmente subordinati. Il discorso comunista, viceversa, s’incentrava sulle denunce dello sfruttamento o sul nesso tra capitalismo e guerra – com’era sua tradizione – ma aggiungeva ora anche un esplicito appello alle élites intellettuali che si sentivano minacciate dal materialismo e dai nuovi consumi culturali di provenienza statunitense. In Francia come in Germania o in Italia, l’identificazione della cultura alta (dalla letteratura alla musica classica) con l’essenza della nazione e il primato delle sue élites, consentiva infatti di intrecciare la diffidenza di queste ultime verso la cultura di massa con una critica spiccatamente antiamericana alla «barbarie» della nuova egemonia, accusata di minacciare la sovranità non solo politica ma anche culturale e identitaria delle nazioni europee.
(da F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009, pp. 89-90)
Presiede: Marina Murat
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.