Se vuole restare nel grande gioco europeo dopo la firma del Trattato di Lisbona, l'Italia farebbe bene ad avviare un grande dibattito nazionale sui mutamenti che si annunciano nell'Unione Europea e sui motivi del proprio ritardo. Il Trattato sottoscritto il 13 dicembre 2007 modifica in profondità gli equilibri istituzionali e politici dell'Unione. Un presidente di turno che resterà in carica almeno due anni e mezzo invece di sei mesi, e i maggiori poteri attribuiti al Parlamento europeo tenderanno fatalmente a ridurre il peso della Commissione. L'aumento delle decisioni prese a maggioranza e la possibilità di creare gruppi di avanguardia in singoli settori rafforzeranno il metodo intergovernativo. La conseguenza pratica sarà che ogni membro dell'Europa conterà per quello che saprà proporre e soprattutto per il suo tasso di credibilità sulla scena europea e mondiale. L'Unione avrà tante velocità quanti saranno i settori nei quali si formeranno cooperazioni tra gruppi di Paesi, ferme restando le istituzioni comuni e la necessità, in un numero di argomenti purtroppo ancora elevato, di raggiungere l'unanimità. A una base condivisa dell'edificio, insomma, si sovrapporranno piani successivi a geometria variabile.
Una simile evoluzione non è priva di incognite giuridiche e dovrà superare la prova dei fatti. Ma il direttorio franco-anglo-tedesco che si è già più volte manifestato, e che periodicamente suscita l'irritazione dell'Italia, è soltanto un logico anticipo di quel che verrà. Sulla carta una leadership europea potrebbe essere esercitata dai tre Grandi oppure da un gruppo allargato di sei, con l'aggiunta dell'Italia, della Spagna e della Polonia. Ma le esercitazioni teoriche sono destinate a lasciare il passo a una graduatoria disegnata dalla quantità e dalla qualità dei settori nei quali ogni membro si mostrerà in grado di svolgere un ruolo più avanzato rispetto ai vagoni lenti del convoglio. Ammesso che questa nuova Europa prenda corpo (e si tratta dell'unica via percorribile se vuole evitare che i successivi allargamenti la condannino alla paralisi), l'appartenenza alla UE diventerà quel che finora è stata troppo raramente: competitiva. Con le istituzioni, la politica, l'economia, la formazione, la ricerca, tutte sottoposte alla regola secondo cui gli esami non finiscono mai.
Fino a oggi l'Italia è sempre stata presente nei gruppi più avanzati, nell'euro, in Schengen, nelle collaborazioni in tema di difesa. Ma siamo pronti a un orizzonte che allargherà notevolmente il criterio della competitività? Qui lo scetticismo diventa lecito. L'appartenenza all'Europa è sempre stata vissuta da noi come un dato acquisito non meritevole di particolari sforzi, come se il settanta per cento delle nostre leggi e regolamenti non provenisse o non avesse l'obbligo di passare da Bruxelles. Soprattutto, la politica e i suoi litigi non hanno preso atto della necessità di avere, in Europa e nel mondo, un biglietto da visita che conta più di ogni altro: quello della stabilità degli indirizzi, sinonimo di credibilità sulla scena internazionale e presupposto di ogni proposta che si voglia far accettare. L'invio di forze di interposizione in Libano è stato un esempio positivo di quel che si dovrà sempre più spesso fare. Ma quanti sono i rovesci della medaglia, quante volte i nostri processi decisionali non si sono mostrati all'altezza, quante occasioni abbiamo sprecato per mancanza di peso specifico? Nell'Europa che si profila la rinuncia causata da confusione interna equivarrà a un lento suicidio. E sarebbe bello credere che i confronti di questi giorni possano alzare lo sguardo e capire che il Trattato di Lisbona ci dà tempo fino al 2009 (ammesso che tutte le ratifiche nazionali vadano in porto) per adeguare l'Italia a una gara nella quale ogni sedia e ogni poltrona dovranno essere conquistate.