“Caro papà,
recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo che avrei paura di te. Come al solito non ho saputo risponderti, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché motivare questa paura richiederebbe troppi particolari, più di quanti riuscirei a riunire in qualche modo in un discorso. Se ora tento di risponderti per lettera, anche questa sarà una risposta molto incompleta, perché anche quando scrivo mi bloccano la paura di te e le sue conseguenze, e perché la vastità del tema oltrepassa di gran lunga la mia memoria e la mia intelligenza. La questione, per te, si è sempre presentata in termini molto semplici, almeno quando ne parlavi con me e, indiscriminatamente, di fronte ad estranei. Ti sembrava che le cose stessero all’incirca così: tu hai lavorato duramente tutta la vita sacrificando tutto per i tuoi figli, per me in particolare; insomma, io sarei vissuto senza pensieri, con la più ampia libertà di studiare quel che mi piaceva, senza alcun motivo di preoccupazioni materiali, vale a dire di preoccupazioni in genere. In cambio non hai preteso alcuna gratitudine, tu conosci “la gratitudine dei figli”, ma almeno una certa compiacenza, un segno di simpatia; invece io mi sono sempre rifugiato nella mia stanza, tra i libri, con amici esaltati, in idee stravaganti, sfuggendoti; […].”
(Lettera al padre, traduzione Claudio Groff, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 9)