Audio integrale
La disponibilità a dar credito alla motivazione umanitaria, in questo come in altri casi, è ovviamente condizionata dalla prospettiva filosofica che si assume di fronte al fenomeno della guerra. Chi si ispiri alla dottrina del iustum bellum o segua i precetti di un’etica militare di stampo anglosassone – penso ad esempio a Michael Walzer – è assai più disposto ad accogliere la motivazione umanitaria rispetto a chi aderisca, come è il caso di chi scrive, al realismo politico. In una prospettiva realistica non è rilevante valutare la sincerità delle convinzioni ideologiche di singoli decisori politici o militari, che può essere tranquillamente accordata. Il problema è un altro: cogliere la funzione persuasiva che una motivazione etica della guerra può svolgere nell’ambito stesso del conflitto. Ebbene, da questo punto di vista la qualificazione della guerra come «intervento umanitario» è un tipico strumento di autolegittimazione della guerra da parte di chi la sta conducendo. Come tale è parte della guerra stessa: è, in senso stretto, uno strumento di strategia militare diretto ad ottenere la vittoria sul nemico.
Ogni guerra è un evento che comporta un grande investimento di risorse umane, politiche ed economiche, che può avere conseguenze molto negative non soltanto sui cittadini del paese che la subisce, ma anche su quelli del paese che l’ha decisa per primo e che in ipotesi la conduce vittoriosamente. Niente più della guerra, a causa dei suoi costi umani e dei suoi altissimi rischi, richiede dunque una giustificazione ideale e una mobilitazione emotiva di massa: la motivazione umanitaria è uno strumento di questa necessaria acquisizione di consenso a favore della «propria» guerra, quali che siano le sue ragioni e i suoi obiettivi.
Dal punto di vista delle potenze occidentali, la motivazione umanitaria è probabilmente la più adatta al tipo di turbolenze presenti nell’arena internazionale dopo il crollo dell’impero sovietico e la fine del bipolarismo. Oggi le occasioni di intervento militare sono prodotte assai più da guerre civili, generate da contrasti di carattere etnico o religioso, che non da guerre fra Stati o fra gruppi di Stati. Le tradizionali motivazioni dell’interventismo militare delle potenze occidentali – la difesa della cristianità, la tutela della pace, la promozione della civiltà – sono ormai obsolete. Per di più, in una situazione di crescente globalizzazione dell’orizzonte politico e comunicativo, l’universalismo della motivazione umanitaria è retoricamente efficace perché consente di contrapporre l’«opinione pubblica mondiale» e l’«etica universale» al particolarismo deviante di un singolo Stato o regime politico.
Wer Menschheit sagt, will betrügen, ha scritto settant’anni fa Carl Schmitt, riprendendo una massima di Proudhon: «chi dice “umanità” cerca di ingannarti». Non è necessario aderire al radicale antiumanesimo schmittiano per diffidare di chi usa la parola «umanità» nel contesto di una guerra. Lo fa molto probabilmente perché è uno strumento che si presta bene al fine di degradare moralmente l’avversario, di isolarlo come «nemico dell’umanità» e di essergli ostile sino all’estrema disumanità. L’argomento secondo il quale la guerra che «purtroppo» si sta conducendo è resa doverosa dall’imperativo morale di porre fine ai «crimini contro l’umanità» che il proprio nemico sta commettendo – crimini oggi rappresentabili in modo suggestivo dai mezzi di comunicazione di massa – corrisponde alla tradizionale necessità di legittimare la propria guerra come iustum bellum e di bollare il proprio avversario come iniustus hostis. Del resto la dottrina etico-teologica della «guerra giusta» è stata escogitata nel Medioevo, e da allora coerentemente utilizzata, proprio per questo fine.
(Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000, pp. 42-44)*
Riferimenti Bibliografici
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.