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La figura dell’Agnello è al centro dell’Apocalisse e rappresenta il cuore della teologia cristiana, proprio perché è il richiamo simbolico al mistero pasquale di morte e risurrezione e, quindi, al grande evento della redenzione. La comunità liturgica cristiana, mentre celebra la domenica «giorno del Signore», contempla al centro del mistero di Dio il Cristo risorto, colui che ha vinto morendo e rivela e comunica a tutta la terra la vita di Dio, cioè il suo Spirito.
L’origine di questa immagine è senza dubbio nell’Antico Testamento. In alcuni testi della tradizione giudaica l’agnello compare come simbolo del capo e del comandante, talvolta anche immagine del futuro Messia; ma, anche se l’Apocalisse stessa presenta l’Agnello come «pastore» (7, 17), «guida» (14, 1-5) e «combattente» (17,14), non sembra questo il significato principale da attribuire a tale simbolo. È decisamente più importante il riferimento sacrificale. Infatti, nella tradizione liturgica di Israele un agnello veniva sacrificato in diverse circostanze: nel rituale quotidiano chiamato tamid, nelle offerte per il perdono dei peccati, negli olocausti di consacrazione. Ma l’elemento più caratteristico è l’agnello pasquale, che non aveva un valore di espiazione, ma era il memoriale dell’uscita dall’Egitto (cfr. Es 12,1-27). Era comune nella prassi cristiana identificare il Cristo con l’agnello pasquale; come dimostra san Paolo: «Cristo nostra Pasqua è stato immolato» (1 Cor 5, 7). Nella morte in croce di Gesù, infatti, è stato visto il compimento dell’antica figura ed egli è inteso come il vero agnello, che determina l’esodo autentico, cioè il passaggio da questo mondo al Padre.
Già i profeti avevano notato un legame fra l’agnello e la condizione di alcune persone particolari. Geremia lo dice di se stesso: «Ero come agnello mansueto condotto al macello» (Ger 11, 19); ma soprattutto il Servo di Dio viene presentato in questo modo: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53, 7). La figura del Servo sofferente che libera dai peccati con la sua morte, può essere stata determinante nell’attribuire a Gesù Cristo il titolo di Agnello e un particolare linguistico deve aver giocato un ruolo di rilievo: in aramaico, infatti, il vocabolo talya’ può significare sia «agnello» che «servo».
All’interno della teologia giovannea questa immagine assume un pregnante significato cristologico. Il Quarto Vangelo, infatti, si apre con la presentazione di Gesù fatta da Giovanni Battista in questi termini: «Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29.36); e culmina con la correlazione fra la situazione del Crocifisso e l’agnello pasquale al quale non veniva spezzato alcun osso (Gv 19,36). Anche se nel Vangelo si usa il termine amnós e nell’Apocalisse il termine arníon, il loro significato è analogo e il valore teologico sembra decisamente comune. L’espressione giovannea «Agnello di Dio» mette in stretta relazione i due termini, esattamente come «Servo di Dio»: attraverso l’uso metaforico del vocabolo e il riferimento al sacrificio vicario del Servo, l’agnello pasquale ha assunto una nota di espiazione. Però, solo l’esperienza storica della morte di Gesù e la comprensione post-pasquale del suo significato salvifico hanno portato la comunità cristiana a riconoscere nel Cristo l’autentico agnello pasquale.
(da Apocalisse, a cura di C. Doglio, Padova, Messaggero, 2012, pp. 148-150)