Video integrale
Nelle mie ricerche ho cercato di costruire una griglia interpretativa in grado di far emergere una dimensione di “religione implicita” nell’universo della cultura materiale domestica. Il percorso ha preso l’avvio da un lato dalla sociologia della religione, in particolare dalle osservazioni di Luckmann sull’individualizzazione e frammentazione dei sistemi di valori ultimi e degli investimenti sacralizzanti; dall’altro dagli studi di cultura materiale, con la loro insistenza sui processi di singolarizzazione e densificazione degli oggetti ordinari che popolano il mondo della vita. Queste suggestioni sono state quindi sviluppate attraverso riferimenti agli oggetti d’affezione e ad alcune forme diffuse di memoria culturale. Spero che ciò basti a scorgere i limiti dei pur suggestivi approcci classici che riducono i significati degli oggetti ordinari al loro status di merce. Un autore come Jean Baudrillard, che ha a lungo dominato questo campo di studi, vedeva ad esempio nelle collezioni l’espressione dell’impulso utilitarista al possesso su cui si basa lo spirito del capitalismo e del mercato. Lo studioso francese si rendeva conto dell’importanza degli oggetti antichi e genealogici nelle case “borghesi” e del loro significato culturale simbolico, non funzionale alla logica del mercato. Ne coglieva anzi l’elemento religioso, definendoli «i segni addomesticati del passato, oggetti dall’essenza sacra ma dissacrata». Eppure cercava in ogni modo di ricondurli a una funzione ideologica di sostegno al capitalismo (e, sul piano psicoanalitico, al “principio di realtà”): «È lo stesso imperialismo che sottomette la natura per mezzo degli oggetti tecnici e che addomestica le culture per mezzo degli oggetti antichi (…). Il passato intero come repertorio di forme di consumo si aggiunge al repertorio delle forme attuali per costituire una sfera trascendente della moda».
Quel che ho cercato di mostrare è che, al contrario, nei “segni addomesticati del passato” operano modelli culturali profondi che cercano di “addomesticare” l’imperialismo delle merci. La forza di densificazione o sacralizzazione che opera nella gestione della cultura materiale domestica poggia su una materia prima acquisita sul mercato, certo, ma lavora in una direzione opposta a quella dell’“imperialismo”: feticizzando gli oggetti, li allontana dal loro status di merce e li colloca in un universo ordinato di significati, ponendoli in rapporto con gli elementi basilari della nostra vita sociale.
Avendo evocato il concetto di collezione, è inevitabile il riferimento a Krzyosztof Pomian e alla sua idea degli oggetti collezionati come “semiofori”. Secondo la sua definizione, una collezione è «un insieme di oggetti naturali o artificiali, mantenuti temporaneamente o definitivamente al di fuori del circuito di attività economiche, sottomessi a una particolare protezione in un luogo chiuso, attrezzato a questo scopo, ed esposti allo sguardo»; oggetti che divengono «mediatori fra gli spettatori e un mondo invisibile». Malgrado l’universalismo di questa definizione, Pomian (come molti dei suoi numerosi lettori) pensa soprattutto ai musei e ad oggetti di valore artistico, tanto da insistere sul “paradosso” dell’inversione di valore: gli oggetti collezionati hanno un alto valore di scambio mentre (o proprio perché) non hanno un valore d’uso. L’uso consisterebbe semmai proprio nella funzione segnica, nella capacità di porre in relazione con “mondi invisibili”, cioè con realtà lontane nel tempo e nello spazio. Ma se dai luoghi pubblici e “attrezzati a questo scopo” passiamo alle realtà domestiche e ordinarie, le cose quasi si rovesciano. I sacra domestici non hanno valore di scambio: sono inalienabili o densi non perché hanno troppo valore (come le opere d’arte rinascimentali o il tesoro della Corona), ma perché non ne hanno affatto. E d’altra parte tale densità non è affatto incompatibile con il mantenimento di un valore d’uso, cioè con il fatto che non siano isolati dall’universo delle pratiche quotidiane ma continuino a farne parte. In realtà la classica dicotomia tra valore d’uso e di scambio non sembra appropriata a dar conto del senso delle collezioni (né la connessa distinzione tra funzione materiale e segnica). Le collezioni hanno semmai a che fare con la separatezza di sfere di valore culturalmente costituite. Non si tratta di riconoscere certi oggetti particolari come semiofori (in contrapposizione a quelli che mantengono un valore d’uso o che, privi anche di quello, divengono – nel linguaggio di Pomian – semplicemente “scarti”): il significato è semmai prodotto dall’intero sistema culturale di cui fanno parte. Diversamente dai beni dei musei, i sacra domestici fanno parte della vita stessa e con essa sono intrecciati. Il “mondo invisibile” al quale rimandano non è necessariamente quello della lontananza o dell’alterità spazio-temporale. È piuttosto quello della devozione a un’intimità ordinaria che si tenta di immobilizzare nel tempo, malgrado l’evidenza della sua fuggevolezza: qualcosa, per riprendere una suggestiva espressione di Lévi-Strauss, che ci aiuta a credere nella vita.
(da F. Dei, Il sacro domestico. Religione invisibile e cultura materiale, in «Lares. Rivista di studi demoetnoantropologici», LXXX, n. 3, 2014, pp. 538-539)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.