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Idolatria, per gli antichi, non era solo l’adorazione prestata a cose che non sono dio, ma anche la costruzione di queste stesse cose, il «farsi come dio» nel voler dare la vita. La religione ebraica e quella musulmana hanno preso molto sul serio la possibile hybris insita nel farsi «creatori», donatori di vita e forma. E d’altra parte alcuni esiti del platonismo e la religione cristiana hanno contribuito a dare all’immagine costruita da mano d’uomo un valore di sacralità, di privilegiato contatto con un mondo «altro». Le origini di questo pensare sono, paradossalmente, anche nelle immagini «acheropite», cioè «non dipinte da mano d’uomo», veli della Veronica o sindoni o altre tracce divine, che tanta importanza ebbero nei primi mille anni della nostra era. Se lo stesso Dio lasciava immagini di sé, perché non imitarlo? Conseguenza diretta di altra e ben più profonda considerazione: se lo stesso Dio si è reso visibile assumendo un vero corpo, perché non perpetuare la sua memoria e rinvigorire l’attesa del suo ritorno attraverso la pittura della sua immagine? […]
A partire dal 727, in un momento di consolidamento del potere del basileus, sotto il regno di Leone III (717-741) e poi di suo figlio Costantino V (741-775), si proibisce la costruzione e il possesso di immagini di Dio e dei santi. L’atto formale con cui si avviò la campagna iconoclasta è la deposizione e distruzione dell’icona di Cristo affissa sopra la Chalke, la porta di bronzo che serviva da ingresso principale del palazzo imperiale di Costantinopoli. Ovunque, ma soprattutto nella capitale, pitture e sculture sacre vengono distrutte e sostituite da semplici croci. Non è il patriarca, ma l’imperatore a decidere questa politica iconoclasta, per motivi diversi e tuttora oggetto di discussione tra gli storici: per influenza dell’iconoclasmo islamico ed ebraico; per sottolineare la valenza religiosa del potere imperiale nel proporre come unico simbolo la croce, che è anche un segno della tradizione costantiniana e del ruolo dell’imperatore in ambito religioso; ovviamente per opporsi alla Chiesa di Roma, prendendo le distanze dalla tradizione didattica radicata in Occidente; ma soprattutto per arginare il potere dei produttori e propagatori di immagini sacre, i monaci, tanto amati dal popolo, ed esenti da ogni tassazione.
Alle posizioni iconoclaste di Leone III si oppone subito il patriarca Germano di Costantinopoli, che viene deposto. Tra i difensori delle immagini, Giovanni di Damasco o Damasceno (ca 690-749), di cui abbiamo le tre orazioni Contro i calunniatori delle immagini. Giovanni era stato iniziato alla dottrina teologica dal monaco Cosma, riscattato dalle mani dei pirati saraceni dal padre, logoteta, ossia governatore civile della popolazione greca sotto gli Arabi (carica che sarà anche di Giovanni). Intorno al 725 si era ritirato nel monastero di San Saba a Gerusalemme, dove aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale. Durante gli anni della lotta iconoclasta difese strenuamente la liceità delle immagini sacre e subì poi la curiosa sorte di essere scomunicato dopo morto, nel 754 (a Hieria), e riabilitato più tardi, al concilio di Nicea. Viene considerato l’ultimo grande Padre della Chiesa greca, colui che compì la sintesi della patristica orientale nell’opera intitolata Fonte della conoscenza, dove dopo aver trattato della Trinità, della creazione e dell’incarnazione, nel quarto libro Giovanni difende il culto delle immagini, sottolineandone il valore pedagogico e morale, e distinguendolo dall’idolatria. Le immagini furono proibite nell’Antico Testamento, ma dopo la venuta di Cristo hanno il ruolo di tramandare ai posteri lo straordinario evento del Dio che assume una natura di uomo. Nel Contra imaginum calumniatores si precisa la funzione catechetica dell’immagine: «ciò che è il libro per quanti sono esperti nelle lettere dell’alfabeto, è l’immagine per gli analfabeti; e ciò che è la parola per l’udito, è l’immagine per la vista» (1, 17). Nella stessa opera le immagini vengono definite «libri aperti» e poi «araldi silenziosi», in contrasto con la lettura ad alta voce che, come si è detto, era praticata da coloro che sapevano leggere.
Sembrerebbe di ritrovare un concetto gregoriano, ma la difesa di Giovanni va ben oltre la pedagogia, poiché la dottrina dello pseudo-Dionigi sulla manifestazione del Dio invisibile nella realtà visibile viene applicata alla pittura: è sufficiente che l’immagine abbia somiglianza con il suo prototipo, pur mantenendosi dissimile nella sostanza, per meritare venerazione. Sempre nelle orazioni di cui sopra, leggiamo anche che «le cose materiali per se stesse non meritano venerazione, ma se rappresentano chi è pieno di grazia, sostenere che esse partecipino di quella grazia è conforme alla fede». Le immagini sono intese come tramite con il divino, partecipi della stessa grazia divina che è presente nella bellezza del creato, ma più vicine al trascendente di un fiore o un albero, perché direttamente ispirate nella mente del pittore da uno stato di grazia di provenienza soprannaturale. Ma Giovanni non fu ascoltato da Leone e Costantino, che perseverarono nell’iconoclastia.
(da M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. VII, 92-94)*
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