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Nell’anno 1599 appare un Opuscolo ad opera del teologo e metafisico gesuita Francisco Suárez, dedicato al «concorso» fornito dalla grazia divina al libero arbitrio: era l’occasione di mettere a fuoco e cercare di risolvere una delle dispute più accese e di più profondo effetto della prima età moderna, quella “sugli aiuti” (de auxiliis) che Dio può offrire all’esercizio della libertà umana. Una questione dottrinale diventata ben presto un vero e proprio campo di forze, in cui si fronteggiavano linee di tendenza contrapposte, tra cattolici e protestanti, e all’interno dello stesso cattolicesimo, tra gesuiti e domenicani. Se alla grazia divina non si può resistere (come nella predestinazione alla salvezza o alla dannazione), che cosa rimane alla libertà umana? E se invece quest’ultima costituisce un fattore imprescindibile della volontà, a che cosa serve in fondo la grazia? La soluzione “barocca” di Suárez è forse uno degli ultimi tentativi di pensare insieme – originariamente – la libertà e la grazia, il naturale e il soprannaturale. Di lì a poco i due termini diverranno sempre più divaricati e alternativi tra loro. Ma proprio negli stessi anni, tra il 1599 e il 1600, appare un’altra opera che aiuta a cogliere questo stesso problema in una maniera tanto affascinante, quanto sorprendentemente acuta. Si tratta del quadro raffigurante La vocazione di san Matteo, dipinto da Caravaggio per la Cappella Contarelli nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Che cosa accade in questa rappresentazione? A che cosa chiama il gesto “elettivo” di Cristo? E chi è il Matteo che viene chiamato? Qui il dono della grazia illumina il dramma della libertà.