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Come per tutti i grandi protagonisti della mitologia, l’entrata in scena nel mondo divino di Parvati, forma seducente e risplendente della Grande Dea, è introdotta da un preludio, un preludio particolare, tipicamente indiano, ma per nulla trionfale, anzi cupo e funebre, diversamente da ciò che ci si potrebbe attendere.
Shiva sposa Sati, letteralmente «Colei che è», ossia la «Vera, Veridica». Il padre di Sati, Daksha, non è entusiasta del genero, «poco convenzionale. Shiva e Sati si ritirano allora sul monte Kailasa e Daksha prepara un sacrificio del cavallo al quale invita tutti gli dèi tranne Shiva. Mentre il dio non si infastidisce per l’affronto, la sua consorte è sconvolta dall’offesa e si reca irata al sacrificio del padre, da cui è respinta in modo sdegnoso. Sati allora, in preda alla collera, si uccide bruciandosi per mezzo dell’ardore accumulato dentro di sé con la pratica yogica. Non appena apprende la notizia della morte di sua moglie, Shiva si infuria e attacca il sacrificio di Daksha con le sue orde demoniache, assumendo la forma terrificante di Virabhadra. Ogni cosa è distrutta e Daksha, decapitato da Shiva, morendo diventa egli stesso vittima sacrificale del rito. Shiva allora ripristina il sacrificio e resuscita il suocero, secondo alcune versioni con la testa di una capra, e il rito procede senza intoppi con la partecipazione del dio» (G. Flood).
In alcune redazioni del mito, forse più tarde, Shiva folle di dolore vaga per l’universo con il cadavere della sposa sulle spalle; Vishnu impietosito interviene e, saettando di lontano con le sue frecce, fa in pezzi il cadavere della dea: ciascun luogo (sono 51 nella lista corrente ristretta, 108 nella più ampia) dove un brandello cade è sacro, santificato dalla carne divina di Sati, ed è chiamato shaktipitha, letteralmente «piedestallo, trono della potenza». Il nome, per niente casuale, è di fortissima significazione. Anche Shiva in qualche sua forma eternamente dimora in ciascuno di questi luoghi, tra i quali notissimo il Kalighat di Kolkata (Calcutta). In India però tutti gli esseri rinascono, non solo gli umani e gli animali, anche i divini: così si sa che Sati è destinata a reincarnarsi e a incontrare nuovamente Shiva come sposo. L’occasione è offerta dal trionfo di un antidio, Taraka, che sbaraglia le schiere dei celesti e li asservisce. Contemporaneamente, Sati è generata nuovamente da un padre diverso, il re dei monti Himalaya, nel grembo della sua sposa: la bimba cresce, le conoscenze delle vite precedenti riaffiorano spontaneamente in lei, diviene adolescente e di bellezza inebriante come il vino, come i fiori delle infallibili frecce del dio d’Amore, perché il Creatore le ha dato forma quasi mosso «dal desiderio di vedere tutta la bellezza in un unico luogo».(…)
Indra, il re dei celesti, decide di incaricare Kama (il nome ha l’identico significato di Cupido in latino) dell’impresa di far innamorare Shiva; il giovane dio accetta con una certa incoscienza, ma male gliene incoglie, perché Shiva si accorge di lui mentre prende la mira, esce per un momento dall’assorbimento mistico e lo incenerisce con l’ardore del suo terzo occhio: d’ora innanzi Kama sarà detto il (dio) «Senza Corpo». Se le frecce d’amore non funzionano, Parvati decide di provare con l’ascesi, non lontana dalla sua sensibilità fin dalla vita precedente; l’idea fa inorridire sua madre Mena, che prorompe in un «Oh no!» di raccapriccio: l’ascesi, si sa, rovina la carnagione. «Oh no!» in sanscrito suona «U ma», espressione che fornisce l’etimologia dell’altro nome di Parvati, appunto Uma. Irremovibile, la giovane indossa l’abito di corteccia dei penitenti che non si allaccia per il rigoglio delle sue forme; le terrificanti mortificazioni che si infligge, però, agiscono meglio delle frecce di Cupido: Shiva si accorge finalmente di lei e la mette alla prova, interrogandola nell’aspetto di un asceta sugli scopi della sua decisione.
Parvati dichiara, con i dovuti modi, la verità: desidera come sposo Shiva, che non si conquista con la bellezza, come la tragica fine di Kama ha provato. Il finto asceta mostra di disapprovarla completamente: Shiva è orrido, orrendamente ornato, socialmente riprovevole; la sua nascita infatti è ignota, egli è spesso nudo ma indossa bracciali-serpente e la pelle insanguinata di un elefante come mantello, frequenta luoghi impuri come i campi di cremazione. La fanciulla dà segni di ira e risponde punto per punto: per esempio, come si può conoscere l’origine di Colui che è l’origine di ogni cosa, perfino di Brahma, il dio creatore? Ed esalta la bellezza, interiore ed esteriore, dell’amato; e siccome è colpevole non solo chi diffama, ma anche chi sta ad ascoltare, si volta sdegnosamente per andarsene: Shiva si manifesta a questo punto nel suo vero aspetto, per dichiararsi schiavo di Uma, che rifiorisce all’istante.(…)
Sati e Parvati rappresentano il modello, divino e perfetto, della donna secondo l’ideologia hindu che possiamo chiamare brahmanica ortodossa: devota al padre, e ancor più allo sposo, luminoso il volto, lussureggiante la figura, deliziosamente divisa fra riserbo e desiderio nei rapporti d’amore con il marito, madre affettuosa, ospite impeccabile, non priva di malizia, sensuale ma seducente per l’innocenza (in un celebre racconto, mentre sta in braccio allo sposo gli domanda di narrarle una storia che nessun altro abbia mai sentito); si tratta di un’immagine della femminilità profondamente intrisa nella sensibilità e nella poesia indiana, ma oggettivamente anche nel diritto. Parvati, d’altra parte, è pure protagonista attiva e determinata – spinta dall’amore per Shiva – della salvezza del mondo, minacciato da un demone potente. La lotta con il demone è infatti un tratto di profilo alto, caratteristico della Grande Dea indiana.
(da G. Boccali, Suggestioni indiane, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 18-22)*
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