Nella tradizione occidentale – secondo Luce Irigaray – non esiste una cultura della felicità, o quantomeno della felicità come ciò che sia possibile e doveroso vivere qui ed ora, in noi stessi e fra di noi, poiché la felicità è relegata in un passato idealizzato o in un futuro più o meno certo, più o meno lontano. Allo stesso tempo, il sistema educativo è dedicato soprattutto a sviluppare un forte senso della competizione e della prestazione, dimenticando l’importanza di insegnare che il rispetto della differenza nella relazione con l’altro è fonte di felicità. E’ perciò importante comprendere come la felicità non provenga dal possesso di beni esteriori, ma corrisponda a una cultura dell’interiorità che è necessario sviluppare, perché sia finalmente possibile svincolarsi dalle comuni rappresentazioni sociali e divenire capaci di trasformare gli istinti e i bisogni in desideri, di rinunciare a una soddisfazione immediata per elaborare una felicità più sottile, più duratura nella relazione con se stesso, con l’altro e con il mondo. Nella filosofia occidentale riveste un ruolo preminente il rapporto soggetto-oggetto, e spesso si tratta di un oggetto puramente mentale quale, ad esempio, la verità. Ma la felicità più grande risulta dalla condivisione di un reciproco desiderio con un altro soggetto, non dall’assoggettamento all’oggetto. Nella cultura occidentale, tuttavia, la relazione con l’altro è stata tematizzata nell’ambito della morale e del dovere, non nell’ambito della felicità. Essa esige, in effetti, la reciprocità nella differenza, questione sconosciuta per la nostra filosofia. In conclusione, Luce Irigaray ritiene sia ormai giunto il tempo di farci carico di una cultura, sia personale che collettiva, che anteponga la felicità a ogni forma di dominazione, di appropriazione, di possesso, compreso quello della verità e del bene.