Dal punto di vista teologico la Riforma protestante si basa su una lettura rinnovata della Bibbia, in cui la dottrina della giustificazione per fede occupa una posizione centrale in modo da diventare il perno materiale di un «principio scritturale», che pone il testo biblico al di sopra di ogni altro magistero umano. Per quanto riguarda la formazione e la necessaria giustificazione argomentativa di questo tipo di insegnamento, è diventata centrale nella memorialistica e nel dibattito accademico una narrazione autobiografica di Lutero, messa per iscritto soltanto nel 1545, pochi mesi prima della sua morte, nella prefazione a un’edizione delle sue opere latine:
«Infine, meditando di giorno e di notte, per la misericordia di Dio feci attenzione al rapporto fra le parole, cioè: “In esso la giustizia di Dio è rivelata, come sta scritto: il giusto vivrà per la fede [Abac. 2,4]”. A questo punto cominciai a comprendere la giustizia di Dio come quella in cui il giusto, per il dono di Dio, vive, e cioè “per la fede”. Capii che questo è il senso: attraverso il Vangelo è rivelata la giustizia di Dio, ovvero quella passiva, secondo la quale il Dio misericordioso giustifica attraverso la fede, come sta scritto: “Il giusto vive per la fede”. A questo punto mi sentii rinato ed entrato nel paradiso attraverso porte spalancate. In seguito, passai a memoria per le Scritture e raccolsi dei casi analoghi anche in altre parole, come “opera di Dio”, cioè ciò che Dio opera in noi, “forza di Dio”, cioè che ci rende forti, “sapienza di Dio”, mediante la quale ci fa diventare sapienti».
Il testo condensa paradigmaticamente l’approccio esegetico di Lutero. La sua lettura della Bibbia è animata da una forte inquietudine per la salvezza, che è tipica per buona parte della teologia del tempo. Nel caso specifico di Lutero, colpisce l’effettiva identificazione di due dimensioni che in precedenza sono state distinte. Nella teologia precedente la teoria di una diversità di sensi della Scrittura, derivabili dal dettato del testo ma non identici a esso (allegorico, morale, anagogico), implicava una certa distanza tra la dimensione filologica e la portata teologica della Bibbia. Per Lutero, invece, la comprensione letterale del testo biblico e il raggiungimento dello stato di salvezza, ovvero del «paradiso», coincidono. Questo approccio è teologicamente preparato dal concetto di un senso letterale «spirituale», affermato da Nicola di Lira e poi Jacques Lefèvre d’Étaples per l’interpretazione cristologica della Bibbia ebraica; questa concezione si contrappone alla lettura «carnale» che gli ebrei avrebbero dato, a parere loro, della Scrittura. La ricezione di questi concetti, compreso il fermento antigiudaico, è documentata per Lutero già nel 1513 all’inizio del suo primo corso di lezioni sui Salmi. Proprio questa scelta di campo, però, gli consente di sfruttare teologicamente la filologia rinascimentale, applicata alla Bibbia ebraica e al Nuovo Testamento da umanisti di spicco come Giovanni Reuchlin, Erasmo da Rotterdam e lo stesso Lefèvre d’Étaples.
Infatti, se leggiamo il brano autobiografico di Lutero dal punto di vista metodologico, incontriamo un filologo al lavoro sul testo biblico. La narrazione parte dalla constatazione di un problema terminologico: l’interpretazione consueta della «giustizia di Dio», rivelata nel Vangelo, in termini di una virtù (aristotelica) del Dio giudice gli fa paura ma crea anche un problema di coerenza logica: perché nel passo di Romani 1,16 s. è chiamato «Vangelo», ovvero «buona novella», un messaggio che apparentemente appesantisce soltanto le minacce escatologiche pronunciate in precedenza? Merita attenzione il fatto che lo stesso argomento compaia già nelle lezioni sulla Lettera ai Romani tenute da Lutero nel 1515-1516. La soluzione del problema, che investe la comprensione letterale del testo, viene ricercata mediante due passi metodologici, che corrispondono pienamente ai suggerimenti dati da Erasmo nelle sue considerazioni sul metodo teologico, pubblicate nel 1518 come testo autonomo e un anno dopo ristampate come una sorta di premessa alla seconda edizione del Novum Instrumentum, cioè all’edizione del Nuovo Testamento in greco. Ciò non significa ancora che la scoperta di Lutero ne dipenda. Si vede, però, che l’esegesi di Lutero si ispira metodologicamente alla filologia del suo tempo. Il primo passo è l’attenta analisi del contesto immediato del termine da analizzare, ed è questa la procedura che porta Lutero a comprendere la «giustizia di Dio» alla luce della citazione di Abacuc introdotta dall’apostolo Paolo. In tal modo Lutero giunge a interpretare la «giustizia di Dio» non più come virtù giudiziale ma come un fattore vitalizzante che da parte umana si realizza nella fede. Il secondo step metodologico è un confronto del termine in questione con i paralleli riportati all’interno dello stesso corpo testuale. È significativo che Lutero prenda in considerazione tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, come corpo unitario, il che corrisponde profondamente alla sua lettura della Bibbia ebraica in chiave cristologica, ereditata da Lefèvre d’Étaples; in base a questa convinzione Lutero proclamerà che la Scrittura ha un solo senso unitario, non una molteplicità di sensi.
(da L. Vogel, La terminologia della grazia nella Bibbia di Lutero e in altre traduzioni tedesche coeve, in F. Ferrario e L. Vogel, Rileggere la Riforma. Studi sulla teologia di Lutero, Torino, Claudiana, 2020, pp. 73-77)*