Il lungo silenzio intorno a un tema come quello della discriminazione su base razziale ed etnica, che negli ordinamenti di common law, ma non solo, ormai riempie gli scaffali delle biblioteche, non fa molto onore ai giuristi italiani. Sembra che nel nostro paese i tempi della cultura giuridica, quando non accelerati da interessi economici immediati, siano sempre un po’ indietro rispetto ai tempi della cultura "senza aggettivi" e della società civile con le sue tensioni. Nonostante l’Italia sia stata toccata relativamente tardi dai flussi migratori più consistenti, dovrebbe invece essere ormai chiaro che la convivenza con il «diverso», rappresenta anche da noi uno dei principali problemi di governo della società dei prossimi decenni, nonché un terreno di acceso scontro politico.
Molte sono le regole funzionali a gestire (bene o male, è un altro discorso) la convivenza con la diversità (autentica o solo percepita, anche questo è un altro discorso). Importantissime e con pesanti implicazioni di valore sono le norme sull’immigrazione, che sono state le prime a entrare nel circuito dell’analisi dottrinale e dell’elaborazione giurisprudenziale, e che giustamente sono state al centro dell’attenzione in concomitanza con la recente riforma. È importante però non perdere di vista anche altri insiemi di regole, anch’essi funzionali a un corretto governo della convivenza con la diversità. Invece, mentre il diritto dell’immigrazione si riassestava nella direzione che conosciamo, si svolgevano inosservati passi importanti per quanto riguarda un altro settore di rilievo, la lotta alla discriminazione. […]
Per comprendere i problemi legati all’attuazione della direttiva, si può prendere utilmente spunto da alcune recenti pronunce relative all’applicazione delle disposizioni concernenti la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi contenute negli artt. 43 e 44 del testo unico sull’immigrazione. Si tratta di norme di grande importanza di principio, la cui collocazione all’interno del TU non garantisce la visibilità che meriterebbero. Esse hanno, tuttavia, permesso all’ordinamento italiano di porsi in una posizione relativamente avanzata rispetto agli standards successivamente stabiliti dal legislatore comunitario. L’art. 43, ricordiamo, contiene infatti una definizione di discriminazione che ricomprende «ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».
(da A. Simoni, La discriminazione razziale alla vigilia dell’attuazione della direttiva 43/2000, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", IV, 2002, pp. 81-82)
Riferimenti Bibliografici
- I. Chopin e E.-M Gournari (a cura di), Developing Anti-Discrimination Law in Europe. The 27 EU Member States Compared, European Commission, Directorate General for Employment, Social Affairs and Inclusion, Luxembourg, Publications Office of the European Union, 2010;
- P. Mathias e M.M. Postan (a cura di), L'età del capitale, 2 voll., Torino, Einaudi, 1979-1980;*
- M. Olivetti e T. Groppi (a cura di), La Giustizia Costituzionale in Europa, Milano, Giuffrè, 2003;
- A. Ross, Diritto e giustizia, Torino, Einaudi, 1990.
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