È meglio contestare la storia o dimenticarla? L’indifferenza che preserva le forme storiche semplicemente smettendo di guardarle non è nulla più che una delega – anche solo all’incuria, o al caso – della decisione ultima, che considero politicamente cruciale, su quali aspetti di sé il passato possa continuare a esibire. Per stabilire quali testimonianze del passato preservare o rimuovere dallo spazio pubblico, materiale o virtuale che sia, bisogna però domandarsi cosa abbia motivato la loro creazione; cosa abbia consentito la loro perpetuazione; chi oggi rappresentino e chi no. L’impiego pubblico delle immagini, o anche solo di nomi storici da abbinare a decisioni unilaterali e atemporali, senza una prospettiva sul passato e quindi sul futuro. La pretesa di farlo è uno degli esiti indesiderabili dell’unica vera e propria cancellazione affligge il nostro tempo: quella della storia come conoscenza. Cui fa da contraltare la venerazione antiquaria dei resti: i quali, proprio perché la storia è ignorata, per illusione ottica possono diventare reliquie da venerare, immodificabili. Archivi, biblioteche, collezioni storiche e monumenti muoiono nell’incuria di un’epoca che feticizza il passato purché non arrechi troppo disturbo.
Dimenticanza della storia e assolutizzazione delle sue rimanenze materiali sono, mi sembra, due facce della stessa medaglia. Del resto, tutti i totalitarismi, gli assolutismi e gli autoritarismi, a ogni latitudine, reinventano tradizioni inesistenti per legittimare se stessi agli occhi delle popolazioni che intendono sottomettere; le quali a loro volta accettano quelle pretese verità sul passato per paura, servilismo, qualunquismo, ignoranza. La storia può anche essere letta come il susseguirsi di regimi di verità, di insiemi di regole attraverso cui nel tempo si è separato il vero dal falso, assegnando al vero effetti di potere. Le immagini, come ogni altro documento che ogni epoca e ogni cultura hanno creato e affidato all’avvenire, devono perciò, penso, essere esaminate non solo nella loro atemporale struttura formale, ma anche come monumenta: ovvero ricollocandole fra i lasciti che Jacques Le Goff definì «il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella data immagine di se stesse». Con questa precisa consapevolezza i dittatori censurano immagini altrui e ne erigono di proprie, che saranno regolarmente abbattute in occasione della loro caduta. Il processo ciclico di distruzione delle effigi di tiranni già amati, temuti o venerati ci appare in molti casi del tutto naturale e condivisibile, perché tacitamente ne condividiamo i presupposti. A riconferma del fatto che ogni raffigurazione è un atto politico, come politico è ogni atto di cancellazione.
(da G. Maifreda, Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla “cancel culture”, Milano, Feltrinelli, 2022, pp. 12-13)