Determinare la natura della felicità, secondo Roberta De Monticelli, richiede innanzitutto stabilire che cosa la felicità non sia. Certamente la felicità non è uno stato emotivo, una passione o un sentimento, sebbene la felicità sia ciò che è in gioco nella vita affettiva e ciascun stato affettivo segnala come presente o assente, vicina o lontana. Solitamente si considera felice una cosa che sia riuscita, che sia adeguata al fine, che abbia realizzato il suo scopo. Allo stesso modo si può considerare la felicità come una condizione di pienezza d’essere che non sempre, non facilmente le cose e le persone raggiungono. E una volta raggiunta, tale condizione ha la proprietà di diffondersi, di ricreare essere e vita intorno a sé: una cosa felice ha la capacità di risvegliare in noi una possibilità d’essere che sentiamo come essenzialmente nostra. In tal senso, la critica di De Monticelli alle dottrine eudaimonistiche è decisa e articolata in due punti: il nostro demone è sempre un buon demone e la felicità non si pone al termine di una vita buona, ma alla sua origine; solo chi è felice ha una vita buona. L’infelicità sarà pertanto caratterizzata dall’impossibilità di portare a compimento il proprio essere, dal prosciugarsi della vitalità: non è il dolore dunque a portare infelicità, ma l’apatia, l’indifferenza, l’aridità, l’analgesia, il vuoto affettivo, il grado zero della vita.