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L’esistenza di un collegamento di tipo ideale fra protezione dei diritti umani e mantenimento della pace internazionale, espressamente riconosciuto – tra l’altro – nel Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non viene ormai messa in dubbio. Non è facile, tuttavia, quantomeno fino alla fine della guerra fredda, scorgere le implicazioni di tale nesso nel concreto operare delle Nazioni Unite. Da una parte, il Consiglio di sicurezza ha esercitato, nella misura limitata in cui la mancata attuazione degli articoli 43 e seguenti della Carta e la paralisi indotta dalla prassi dei veti contrapposti gliel’hanno consentito, i poteri che gli sono attribuiti dal Capitolo VII in vista del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; dall’altra, l’Assemblea generale, avvalendosi della Commissione dei diritti umani, ha fatto uso dei suoi poteri al fine di promuovere il rispetto dei diritti umani. Questo stato di cose, fondato sulla separazione fra azione per il mantenimento della pace e attività di promozione e protezione dei diritti umani, viene parzialmente superato a partire dall’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo, in un contesto generale di notevole discontinuità. Per un verso, non si può non prendere atto della circostanza che i conflitti interni scoppiati negli anni successivi al venire meno dell’equilibrio bipolare, talvolta all’origine di vere e proprie catastrofi umanitarie, costituiscono al tempo stesso un pericolo per la pace internazionale e il teatro di violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani. Per altro verso, gli strumenti tradizionali che la Carta delle Nazioni Unite mette a disposizione sia allo scopo del mantenimento della pace sia a quello della protezione dei diritti umani rivelano la loro insufficienza di fronte all’esplosione di conflitti sanguinosi, soprattutto – ma non soltanto – nella regione europea dei Balcani e in quella africana dei Grandi Laghi.
In questa cornice, nel tentativo di elaborare modalità nuove di protezione dei diritti umani a fronte dell’inadeguatezza complessiva degli strumenti tradizionali dell’Organizzazione, l’esistenza del nesso fra diritti umani e pace viene riaffermata su basi rinnovate. La nuova impostazione è enunciata nell’Agenda per la Pace del 1992, elaborata dal Segretario generale e approvata sia dall’Assemblea che dal Consiglio. L’Agenda accoglie una nozione di pace estesa, comprensiva non solo della pace in senso strategico-militare, ovvero dell’assenza di conflitti armati fra Stati, ma anche della pace sociale, interna a ciascuna compagine statale, risultato – tra l’altro – dell’esistenza di un sistema democratico e rispettoso dei diritti individuali. La principale conseguenza pratica di questa nuova impostazione è che gli organi delle Nazioni Unite, a cominciare dal Consiglio di sicurezza, possono fare uso degli strumenti previsti dalla Carta o affermatisi nella prassi dei quali l’Organizzazione dispone al fine del mantenimento della pace anche al diverso scopo di proteggere i diritti individuali. A partire dagli anni Novanta avviene infatti, da un lato, che venga spesso incluso fra i compiti delle missioni di peace-keeping in senso lato delle Nazioni Unite anche quello di svolgere attività di difesa dei diritti umani in loco; dall’altro, che si valuti in seno al Consiglio di sicurezza l’opportunità di qualificare come “minaccia alla pace” ai sensi dell’art. 39 della Carta, in vista dell’eventuale decisione di misure previste dal Capitolo VII, situazioni caratterizzate principalmente dalla violazione grave e sistematica dei diritti umani.
(da A. Marchesi, La protezione internazionale dei diritti umani. Nazioni Unite e organizzazioni regionali, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 153-155)*
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