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Il mondo in cui viviamo è caratterizzato da enormi disparità di ricchezza e potere. La progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali e la globalizzazione economica hanno contribuito ad aumentare il divario fra i ricchi e i poveri del pianeta. Allo stesso tempo, i processi di globalizzazione in atto – che hanno natura non soltanto economica, ma anche culturale e politica – danno luogo poco alla volta a una sorta di comunità globale che di conseguenza riduce l’influenza esercitata dagli Stati nazionali sulle vite dei singoli individui. Data l’ineguaglianza profonda tra individui e tra Stati a livello globale, alcuni di noi sarebbero pronti a sostenere che una tale ineguaglianza è davvero ingiusta. Premesse di questo tipo danno adito a una richiesta diffusa di maggiore giustizia a livello globale. Tuttavia, a questa iniziale condivisione di vedute, fanno seguito evidenti differenze e le strade si dipartono. Secondo alcuni, le ineguaglianze dovrebbero essere rapportate, e possibilmente ridotte, alle relazioni tra individui. In questa prospettiva, che si può definire “cosmopolitismo”, l’ingiustizia è ricondotta ai rapporti fra i singoli individui che abitano il pianeta. Secondo altri, è invece fuorviante parlare di politica globale in termini di rapporti fra individui. In questa prospettiva alternativa, che possiamo chiamare “statismo”, ci sono Stati e popoli storicamente differenti, la cui presenza non può essere ignorata se intendiamo davvero parlare del mondo in cui viviamo. E per contrastare quel che è ritenuta una improbabile o infausta utopia cosmopolitica, gli statisti suggeriscono una visione minimalista della giustizia globale. Questo punto di vista non prefigura un mondo di individui più eguali tra loro, bensì un mondo di Stati impegnati a costituire una società più egualitaria. I fautori del cosmopolitismo nutrono una profonda fede nella teoria della giustizia distributiva globale e la piena conquista dei diritti umani. In altre parole, i cosmopoliti credono fermamente in una giustizia globale “forte”. Di contro, i sostenitori dello statismo confidano poco nella giustizia globale, sebbene accettino la validità e il rispetto tutt’al più di alcuni diritti umani sulla base di una concezione umanitaria che tuteli i più svantaggiati del pianeta. (…) La mia tesi poggia su una considerazione ulteriore e solitamente poco considerata. Quando trattiamo queste tematiche, tendiamo a confondere due tipologie di argomentazioni a sostegno di una maggiore giustizia sociale nel mondo. Da un lato, vi sono teorie sulla giustizia distributiva globale che, sostanzialmente, si limitano a estendere i paradigmi della giustizia sociale nazionale a livello globale. Queste teorie si focalizzano su una disuguaglianza relativa, a causa della quale i poveri del pianeta risentirebbero di una disuguaglianza da cui è molto difficile uscire, «impenetrabile, pervasiva, ineliminabile» (Thomas Pogge), del tutto simile all’ineguaglianza diffusa a livello nazionale. Dall’altro lato, sussistono approcci basati sulla bontà e l’efficacia dei diritti umani socioeconomici. Di solito questi approcci sono “gradualisti” o basati sul “principio di sufficienza”, nel senso che prendono in esame la povertà assoluta piuttosto che l’ineguaglianza relativa, e per questa ragione non equiparano l’ineguaglianza globale all’ineguaglianza nazionale. L’impossibilità di differenziare queste due teorie crea un’enorme confusione e, a mio avviso, ingenera difficoltà teoriche sostanziali rispetto al problema trattato. Di regola, i cosmopoliti aderiscono al modello di giustizia distributiva globale che riduce i diritti socioeconomici a corollario delle loro personali teorie della giustizia. Gli statisti, invece, rifiutano l’idea di giustizia distributiva globale, talvolta preferendo a quest’ultima l’aiuto umanitario. La terza alternativa che propongo afferma che, in quest’epoca, un ideale onnicomprensivo di giustizia distributiva globale fondata sul modello di giustizia distributiva nazionale non sia ancora sostenibile in ambito teorico, sebbene non meriti neppure lo scetticismo avanzato da molti statisti. Tuttavia, una interpretazione ampia e convincente dei diritti economici può favorire la riduzione dell’ingiustizia sociale nel mondo globalizzato di oggi. Questa posizione è gradualista o basata sul principio di sufficienza, e parte da una diminuzione della povertà estrema per garantire, col tempo, ai singoli individui la piena facoltà di decidere del loro destino. Si può affermare che questa tesi, che sposta la nostra attenzione dall’ineguaglianza relativa alla privazione radicale, si basa su un ideale più modesto dell’uguaglianza globale, un ideale che può essere definito “giustizia distributiva globale debole”. Ritengo inoltre che questa posizione intermedia crei una sorta di continuità tra livello 0 di giustizia globale e livello 1 di giustizia globale. Forse – come sostengono gli statisti – in una prospettiva globale sovranazionale non esiste una reale giustizia globale, ma deve comunque esercitarsi una sorta di giustizia globale basata sui diritti umani. Parlare di giustizia significa, senza dubbio, affermare che questa posizione intermedia supera il livello della mera preoccupazione umanitaria, o meglio, che sussistono obblighi che fungono da ponte tra il dovere giuridico in senso stretto e il puro sentimento morale. A mio avviso, la posizione intermedia soddisfa un altro requisito significativo, perlomeno per un teorico politico con una formazione liberale. I cosmopoliti propendono per una radicale moralizzazione della politica internazionale, le cui istituzioni sono da considerarsi al servizio degli ideali morali da loro privilegiati. Gli statisti, al contrario, tendono a dare poco spazio alla morale in ambito di politica internazionale. Ritengo che, per un liberale, entrambe le posizioni risulterebbero poco convincenti. Ecco perché ho definito “concezione liberale” questa mia terza posizione, basata su un ideale debole di giustizia globale, né moralistica, né scettica.
(da S. Maffettone, Un mondo migliore. Giustizia globale tra Leviatano e Cosmopoli, Roma, LUISS University Press, 2013, pp. 101-103)*
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