La conferenza sarà tenuta in lingua italiana
Punto di partenza è il concetto bizantino, ma anche cattolico-romano, delle icone «non fatte da mano d’uomo», ovvero dette «acheropite», cioè impresse miracolosamente dal sigillo divino su qualche materia, specialmente quelle lasciate (secondo leggende apparse prima in Oriente intorno al V-VII secolo, poi in Occidente latino intorno al XII secolo) da Cristo stesso, autoritrattista del suo volto umano-divino. Queste leggende, e gli oggetti di devozione che esse hanno esaltato e santificato, sono diventate, durante la controversia bizantina intorno alla liceità delle immagini nel culto cristiano (VII-IX secolo), un argomento essenziale dell’apologetica iconofila in favore del culto cristiano delle immagini sacre. Nel mondo latino, non soltanto l’iconofilia non è mai stata contestata fino allo scisma protestante del XVI secolo, ma dal XII al XV secolo si è sviluppata la leggenda originale di una «santa Veronica» collaboratrice di Cristo autoritrattista, essa stessa entrata nel repertorio di argomenti favorevoli non soltanto, come in Oriente bizantino, alle icone, ma alla pittura in quanto arte cristiana, superiore tanto all’idolatria pagana quanto all’iconofobia eretica – ebraica o islamica – e capace di ritrovare, ed anche superare cristianamente, a fini più alti, i meriti propriamente artistici attribuiti dalla letteratura antica ai geni dell’arte pagana – la «vita», la «parola», la «natura più che naturale» – meriti non ricercati dall’iconofilia bizantina, la quale nega all’icona lo statuto di opera d’arte, e all’esecutore dell’icona il diritto d’autore sull’immagine sacra, impronta del divino.
Perché non risalire il corso del tempo e domandare ai contemporanei delle opere d’arte, per i quali esse sono state create, come dobbiamo guardarle, sentirle, colloquiare con loro?
Probabilmente gli osservatori di un tempo non sapevano e non avevano tutto ciò che noi crediamo di sapere e di avere. Eppure, nella loro arretratezza, dovevano certo possedere attitudini che noi abbiamo perduto, in virtù delle quali si dimostravano degni di quelle opere che ci attraggono e superano i limiti della nostra comprensione. Accostandoci ad essi, interrogandoli con calma, pazientemente, senza fare sfoggio della nostra schiacciante superiorità, potremmo forse imparare ciò che comunicavano loro tali immagini, che a noi, invece, non parlano più se non con quelle voci ventriloque che da un megafono ci incitano a venerarle, ripetendo con Malraux: «Dio è morto, ma noi abbiamo saputo trarre da noi stessi queste immagini abbastanza possenti per negare il nostro nulla». A questa cavernosa ingiunzione obbediamo, ma senza crederci, perché ci lascia inappagati.
Tale religione delle immagini fondata sul nulla e sul mercato non libera la nostra percezione dal flusso di immagini senza profondità che oggi la governa imperiosamente e che si interpone, nostro malgrado, tra l’occhio e i capolavori. Essi vanno dunque abbandonati: bisogna lasciare provvisoriamente il museo in attesa di ritornarvi, e intraprendere un lungo viaggio. Questa diversione passa attraverso i libri. Tutto ciò può sembrare paradossale. La parola scritta è oggi presentata come l’avversaria, sconfitta a priori, delle immagini. Ma non è sempre stato così.
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Alle gallerie di quadri, ai gabinetti di stampe, io non accedo quindi in veste di penitente, con la corda al collo, pronto a piegare il ginocchio davanti all’Idolo-Immagine. Quest’ultimo, veicolo di propaganda, di pubblicità, di informazione, di divertimento, oggi sottomette alla manipolazione terroristica dell’opinione pubblica persino i capolavori dell’arte antica, ai quali di tanto in tanto concede graziosamente, come a vecchi parenti di provincia, ospitalità negli alloggi della servitù. L’Idolo-Immagine è vano tanto quanto l’Idolo-Parola, che gli viene contrapposto con ipocrita pietà, come sua vittima designata. Basterebbe quest’antitesi a dimostrare fino a che punto la «comunicazione» moderna sia nemica della retorica e della vera persuasione. Per non lasciarsi abbagliare da questo preteso urto tra il vaso di coccio e il vaso di ferro, è bene tornare indietro, nel cuore di un’epoca che possedeva il senso della sostanziale affinità tra il linguaggio che svela e le forme che parlano, accomunati dalla stessa artigianale perseveranza nel persuadere.
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Viceversa la filologia è una grandissima scienza, ma costretta, come le altre, a isolare i propri oggetti, facendo perdere di vista la «grande catena» che, così come ancora oggi nell’esperienza immediata, un tempo nella «concezione» stessa «del mondo» legava ciò che abbiamo tanto accuratamente dissociato per comodità metodologica. Nella storia delle arti, dunque, la restituzione del «testo» autentico delle opere, la loro interpretazione letterale, il loro raffronto con le «fonti» letterarie, la loro delucidazione attraverso la biografia e il clima storico ricostruiti sui documenti d’archivio debitamente collazionati e sottoposti a vaglio critico hanno reso enormi servigi a una migliore conoscenza dei fatti artistici del passato.
Ma troppo spesso si dimentica che il rigore di questo metodo implica un sistema di lettura e di ricezione delle opere d’arte affatto singolare, tipico di specialisti moderni che a loro volta formano una società la cui visuale non ha nulla in comune con il modo in cui un tempo, in un mondo meno rigorosamente disciplinato dalla divisione del lavoro, erano lette, apprezzate e comprese le opere d’arte.
Anche questo rientra nel compito di recupero del passato assegnato allo storico, ma tale compito si colloca in un ordine del conoscere meno «scientifico» – nel senso post-cartesiano del termine – di quello cui pretende a buon diritto di accedere lo storico strettamente filologo: un ordine in cui il probabile, il verosimile, l’ipotetico, per quanto circoscritti e prudenti intendano essere, rivendicano i propri diritti nell’arte di recuperare non «fatti» ma modalità dimenticate di percezione e comprensione. È appunto in quest’ordine, un po’ rischioso o sospetto, che uno storico delle Lettere può sperare di offrire il suo modesto contributo agli esperti di storia dell’arte.
(M. Fumaroli, La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo, Milano, Adelphi, 1995, pp. 14, 16-17, 61-62)*
Riferimenti Bibliografici
- Grabar, L’iconoclasme byzantin, Paris, Flammarion, 1984;
- H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Roma, Carocci, 2001;*
- G. Wolf, Schleier und Spiegel. Traditionen des Christusbildes und die Bildkonzepte der Renaissance, München, Fink, 2002;
- E.R. Curtius, Letteratura latina e Medio Evo europeo, Firenze, 1997;*
- E. Panofsky, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Torino, 1975;*
- E. Pommier, Il ritratto. Storia e teorie dal Rinascimento all’età dei Lumi, Torino, 2003;*
- S. Schama, Paesaggio e memoria, Milano, 1997.
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.