L’ascesi, in quanto esercizio pratico e interpretazione, mostra come il corpo e l’anima siano aspetti del medesimo, come la rappresentazione sia sempre in qualche modo rappresentazione del corpo e il corpo riferimento/apertura dello spazio della rappresentazione.
Il paradosso della rinuncia si configura dunque come una pratica del corpo entro un’interpretazione del medesimo. Interpretazione che corrisponde poi ad una cognizione di sè e di sè nel mondo. La pratica ascetica si sviluppa secondo un movimento complesso: io/sè-natura-Dio/infinito. Più esattamente entro una circolarità psicologica-cosmologica-ontologica. In questo quadro ove si colloca il cosiddetto normale, il naturale ingenuamente inteso?
La sessualità è il tema proprio e dominante dell’ascesi. Lo è per l’universalità dell’esperienza, lo è, perchè proprio nella dinamica della sessualità il corpo è vissuto come potenza, energia: soprattutto come desiderio. Se ciò è vero, il dominio di sè non può essere altrimenti effettuato se non attraverso il governo del desiderio e perciò la titolarità piena del proprio corpo: del volontario e perfino dell’involontario.
La pratica della rinuncia viene dunque a configurarsi come paradosso in quanto mira alla conquista di sè tramite un’apparente rinuncia a se stessi. L’ascesi concentrandosi sul controllo del desiderio si formula ovviamente come cura di sè. Per altro verso essa attinge una relazione profonda, esplora il legame tra l’io corporeo e il mondo o, più propriamente, tra mente e natura, sè e il tutto.
La rinuncia, in quanto conquista di sè, si determina come filosofia della moderazione; in quanto rifusione in altro, uno/tutto o Dio, si determina come filosofia dell’autotrascendimento. In tale caso, come filosofia dell’eccesso.
La pratica della rinuncia assume dunque significati diversi a seconda delle visioni del mondo, delle epoche e degli assetti sociali entro cui viene di fatto praticata. Per questa ragione la rinuncia può essere difficilmente compresa, al di fuori del nesso esperienza/interpretazione.
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