Il tema della relazione fra il pensiero dell’animale umano e la lingua che parla è stato affrontato molte volte e ha una lunga storia dietro di sé. Su questo tema si scontrano principalmente due posizioni: quella di chi ritiene che la mente umana non abbia bisogno del linguaggio e quella di chi, invece, ritiene che il pensiero umano dipenda dalle lingue. In realtà questa è un’estremizzazione: come nessuno sostiene che il linguaggio non influenzi in alcun modo il pensiero, così nessuno sostiene che senza lingua non ci sia alcun pensiero. La posta in gioco di questa discussione è, più precisamente: il pensiero specificamente umano, quello proprio di Homo sapiens (e non quello condiviso con gli altri animali), dipende o no dalle lingue? L’animale umano pensa e poi (eventualmente) parla, oppure pensa attraverso le parole? Nel primo caso non c’è bisogno del linguaggio per pensare, nel secondo caso senza lingua non c’è nemmeno pensiero. In realtà, si tratta di un problema che riguarda non soltanto il pensiero, ma coinvolge l’intero corpo, a partire dalle capacità percettive, come dimostra il dibattito sul “linguaggio egocentrico” fra due dei maggiori psicologi del Novecento.
Per lo svizzero Jean Piaget, il bambino che parla «non si preoccupa di sapere né a chi né di essere ascoltato»; «il bambino parla solo di sé e soprattutto non cerca in alcun modo di porsi dal punto di vista dell’interlocutore». Questo uso della lingua è causato dal fatto che all’inizio prevale, nel piccolo della specie umana, il pensiero egocentrico, caratterizzato da una radicale indistinzione tra sé e gli altri, e dall’incapacità di pensare il proprio punto di vista come parziale e relativo. Il linguaggio infantile, per Piaget, è rivolto verso lo stesso parlante, non verso l’altro. All’inizio il pensiero del bambino è egocentrico, cioè all’inizio c’è una mente individuale (sebbene non cosciente di essere il pensiero di un individuo) che poi, progressivamente, si apre alla relazione sociale. Lo stesso accade al linguaggio egocentrico, destinato a essere soppiantato da quello socializzato durante lo sviluppo infantile.
Il modello evolutivo del sovietico Lev Vygotskij rovescia completamente l’impostazione di Piaget: all’inizio c’è la relazione sociale, senza la quale non sarebbe possibile la sopravvivenza né fisica né psichica del neonato. All’inizio per Vygotskij non c’è un individuo isolato, c’è invece un’attività collettiva. All’inizio c’è l’azione comune, ad esempio il gesto con cui il bambino indica all’adulto un oggetto che ha attirato la sua attenzione, ma che non riesce a prendere da solo. Per capire il linguaggio egocentrico non si deve cercare nella testa del bambino, in un (presunto) originario pensiero egocentrico; invece si deve cercare nel suo ambiente naturale, cioè in quello sociale. Vygotskij scopre così che il cosiddetto “linguaggio egocentrico” in realtà ha una funzione fondamentale: attraverso di esso il bambino pianifica e guida le sue azioni. Non si tratta di parlare senza tener conto degli altri, piuttosto si tratta di pensare ad alta voce. Il linguaggio egocentrico è letteralmente pensiero in parole. Non pensiero espresso o manifestato in parole, perché sarebbe inutile esprimere a se stessi quello che già si sa; il linguaggio egocentrico è un pensiero articolato e pianificato fatto di parole. In questo caso è impossibile separare la lingua dal pensiero, la mente dalla parola, l’interno (il mentale) dall’esterno (la sua espressione): è pensiero parlato, o parola pensata.
(da F. Cimatti, Psicologia e psicoanalisi, in F. Cimatti e F. Piazza, a cura di, Filosofie del linguaggio. Storie, autori, concetti, Roma, Carocci, 2016, pp. 321-341)