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Resto tuttora convinto che sulla scelta strategica dell’accoglienza, del dialogo e del confronto (ecumenico, interreligioso, interculturale) si investa ancora troppo poco, sul piano civile, ma anche su quello ecclesiale, relegandolo spesso, di fatto, al di là delle dichiarazioni di principio, tra gli aspetti meno rilevanti della pastorale ordinaria, confinandolo malinconicamente alla celebrazione di giornate specifiche nel corso dell’anno liturgico (dalla Giornata del dialogo ebraico-cristiano il 17 gennaio alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, fino alla più recente Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico, il 27 ottobre). Di più: talora si giunge a metterlo in discussione e a porne in discussione l’efficacia, in realtà, senza neppure averlo sperimentato concretamente e senza avervi impegnato energie, tempo, reale interesse. Siamo così, a ben vedere, a una retorica del dialogo, incapace di fare i conti col fatto che il dialogare – quando è autentico – costa inevitabilmente un prezzo alto, perché ci mette in gioco nell’intimo, e ci può spingere a scelte controcorrente, portandoci a ridiscutere alcune delle nostre abituali sicurezze (il riferimento, in particolare, è a ciò che Raimon Panikkar chiamava opportunamente dialogo intrareligioso).
«L’educazione e la formazione al dialogo interreligioso, o a una vita di amicizia e di simpatia con persone di altre religioni – scrive padre Franco Sottocornola, fondatore del Centro interreligioso Shinmeizan, in Giappone – deve anzitutto cercare di creare questo atteggiamento generale col quale noi sottolineiamo quello che è positivo, buono, bello nell’altra religione, piuttosto che i suoi aspetti negativi, ponendo l’accento su tutto quello che unisce o favorisce la collaborazione e l’amicizia, piuttosto che su ciò che divide». Si tratta, in vista di tale acquisizione, evidentemente, di avviare un cammino che potrà rivelarsi anche lungo, complesso e accidentato, Ratisbona docet: è inutile farsi troppe illusioni (ma anche fasciarsi la testa prima di averci provato seriamente, beninteso!).
«Il dialogo interreligioso – ha ragione Ambrogio Bongiovanni – non può essere lasciato all’improvvisazione, ma richiede sia una preparazione, che l’educazione tradizionale non sempre è in grado di fornire, sia lo sforzo per liberarsi dalla tentazione di relegare il dialogo al solo ambito accademico, guardando alle religioni come a un complesso dottrinale da esaminare e discutere, trascurando l’ortoprassi».
Ecco allora alcune indicazioni di metodo che favorirebbero l’incontro di cui si è detto e lo renderebbero meno teso e drammatizzato. Prima di tutto, il dialogo interreligioso potrà maturare nel quadro di un riconoscimento che chi dialoga non sono le religioni (entità astratte) bensì delle donne e degli uomini in carne e ossa, con storie, vissuti, sofferenze, speranze, peculiari e irripetibili. Non appaia una considerazione banale, o scontata: quanti errori sono stati compiuti, e continuano a farsi, a causa di una lettura tutta ideologica e metafisica dell’altro! Gli esempi si sprecherebbero.
(da B. Salvarani, Il dialogo è finito? Ripensare la Chiesa nel tempo del pluralismo e del cristianesimo globale, Bologna, EDB, 2011, pp. 117-118)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.