Perché, tra il XII e il XIII secolo, alcuni teologi iniziarono a usare l’immagine del “bordo dell’inferno” (limbus inferni), prendendo in prestito dal latino classico una parola che significava “orlo” o “bordo” di una veste? Sotto quali spinte e perché l’immagine dell’orlo dell’inferno cominciò a essere adottata sistematicamente? Perché questa immagine si rivelò utile come etichetta sotto la quale classificare diverse categorie di anime, apparentemente molto diverse tra loro?
Secondo il modo di ragionare degli scolastici, tutte queste anime avevano qualcosa in comune, ma divenne presto chiaro che il tema racchiudeva potenzialità di interpretazione e di rappresentazione in possibile contrasto con i limiti teologici della salvezza. Le idee e le immagini del limbo, nelle sue diverse forme, non furono le stesse per tutti: in questo caso non conviene quindi parlare, come si fa spesso ancora oggi, negli studi sulle credenze e le rappresentazioni dell’aldilà, di “rappresentazione collettiva”. Ho cercato di pensare a un modello diverso, che tenga conto della natura frammentaria, talvolta locale e soggettiva, delle immagini del limbo.
Rispetto a molte delle precedenti ricerche sulla nascita e la diffusione delle idee sull’aldilà, lo studio del limbo offre anche un ulteriore importante terreno di riflessione. […] Una delle ipotesi qui seguite è che lo sviluppo, e forse anche l’insuccesso, del tema del limbo, e specialmente del limbo dei bambini, sia stato il frutto di un processo che, per quanto guidato dai teologi, non è unicamente riconducibile a una semplice “religione della paura” imposta dall’alto. Ci chiederemo se la proposta del limbo non venne incontro anche a spinte dal basso, per arginare una paura – quella nei confronti di morti non pacificati, non ritualmente seppelliti e senza nome – di cui troviamo ampie tracce nella storia delle credenze religiose europee e nel bacino mediterraneo fin dall’antichità.
(da C. Franceschini, Storia del limbo, Milano, Feltrinelli, 2017)