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Il testo letterario più famoso dell’antica Mesopotamia, l’Epopea di Gilgameš, è anche la più ampia riflessione sulla natura umana e sulla posizione dell’uomo nel cosmo, dove sembra occupare una posizione intermedia tra il mondo divino e il mondo naturale, o ferino. In quanto figlio di una dea e del re di Uruk, Gilgameš rappresenta chiaramente il legame tra l’uomo e il mondo divino che, nell’ideologia dell’antica Mesopotamia, è il fondamento della regalità, un’istituzione che proviene direttamente dal cielo. Gilgameš è dunque il risultato di una miscela delicata, di un’alchimia in grado di unire dio e l’uomo. Inoltre, la regalità possiede una complessa, seppur variabile, relazione simbolica con il mondo animale, il quale dispensa esempi delle virtù essenziali al potere regale, in particolare la forza rappresentata dal leone e dal toro. Questi animali erano spesso menzionati nei testi e nei ritratti presenti negli artefatti che descrivono o rimandano al re e al suo potere. A loro volta, gli animali hanno una relazione speciale con gli dèi, ai quali appartengono e che accompagnano o simbolizzano, al punto che il confine tra dèi e animali è indistinto e diverse creature ibride popolavano l’immaginario mesopotamico.
Nell’Epopea di Gilgameš questi temi sono affrontati in relazione alla questione principale in gioco: il destino mortale dell’uomo. La mortalità distingue anche gli uomini più straordinari dagli dèi ed è una condizione condivisa con gli animali, sebbene con un grado diverso di consapevolezza dovuto alla coscienza individuale e al riconoscimento sociale di questo fatto fondamentale. La storia di Gilgameš – così come è conservata nella sua versione più tarda – è divisa in due parti: la prima narra dell’incontro di Gilgameš con Enkidu – l’uomo selvaggio che in origine viveva con gli animali della steppa – e delle loro successive avventure; la seconda, dopo la morte di Enkidu, racconta il viaggio solitario di Gilgameš per raggiungere Uta-napišti, l’unico uomo immortale, dal quale ottenere il segreto dell’immortalità.
Quando gli dèi decidono di creare Enkidu, desiderano controbilanciare il carattere eccessivamente esuberante di Gilgameš, dovuto alla sua nascita particolare e alla sua posizione sociale, con una creatura che assomma caratteristiche umane e “selvagge”. Nel racconto, Gilgameš e Enkidu sono dunque entrambi in relazione con gli dèi e con gli animali, sebbene in modo differente.
Questi aspetti dell’Epopea di Gilgameš emergono prendendo in esame le diverse versioni e i diversi passaggi delle avventure di Gilgameš che, come è noto, sono state tramandate attraverso i secoli a partire dalla fine del III millennio a.C.; un racconto che è stato progressivamente aggiornato fino a che non è stato fissato nella cosiddetta versione babilonese standard, ovvero il testo in dodici tavolette rinvenuto nelle biblioteche assire – in particolare in quella di Assurbanipal – e babilonesi del I millennio a.C.
(da S. Ponchia, Gilgameš and Enkidu. The Two-thirds-god and the Two-thirds-animal?, in Animals and their Relation to Gods, Humans and Things in the Ancient World, a cura di R. Mattila, S. Ito, S. Fink, Wiesbaden, Springer, 2019, pp. 187-188).