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Nel 1543 il polacco Niccolò Copernico si rifece a un’antica idea del greco Aristarco di Samo per proporre una nuova immagine del cosmo, nel quale il Sole prendeva il posto della Terra al centro delle sfere celesti. Era la prima intuizione dell’odierno sistema eliocentrico. Nel volgere di un secolo si infransero anche quelle sfere inscalfibili che confinavano il nostro pianeta in uno spazio angusto. È un secolo rischiarato dalla luce di satelliti e di comete, cosparso delle scoperte di molteplici e differenti oggetti celesti. Nel 1572 e nel 1604, i cieli d’Europa furono rischiarati dall’esplosione di due supernove. Queste “nuove stelle” indicarono agli astronomi che le costellazioni non erano immutabili. Galileo Galilei, osservando le macchie solari con il suo cannocchiale, intuì che non erano nemmeno incorruttibili. I quattro satelliti di Giove, i “pianeti medicei” da lui scoperti, provarono come non fosse inevitabile che tutti i corpi celesti si muovessero intorno alla Terra. L’universo divenne più vario, più diversificato, più inquietante. Nello stesso tempo, si rivelò incredibilmente vasto. Nel 1584, nel dialogo De l’infinito universo e mondi, Giordano Bruno fu il primo a enunciare con chiarezza (e con gioia) le conseguenze più radicali delle scoperte astronomiche. Appariva un universo totalmente nuovo: un universo infinito. Era la fine del “mondo chiuso”, per dirla nei termini con i quali Alexandre Koyré ha definito il cosmo del Medioevo europeo. Era la fine di un ordine naturale univoco e gerarchico, in cui la Terra era subordinata e inferiore al Cielo, in cui l’impermanenza, il divenire, la generazione e la corruzione del mondo sublunare contrastavano con la perfezione dei moti circolari dei corpi celesti.
Da molti, le scoperte etnologiche e le scoperte astronomiche furono percepite con allarme. Nella loro simultaneità, indicavano la disintegrazione di un cosmo unitario e integrato, di un sistema di relazioni coerente, di risonanze consolidate fra l’architettura del sapere e l’architettura dell’universo naturale. Si poneva il difficile problema di coordinare le conoscenze vecchie e le conoscenze nuove, nel momento in cui la disintegrazione del cosmo tradizionale creava nuovi oggetti, nuovi valori, nuovi linguaggi, nuovi universi del discorso. […] La rivoluzione che dischiuse le porte dell’età moderna fece esplodere i confini dell’antico cosmo e delineò un universo infinito, senza confini apparenti, indefinitamente estendibile nello spazio e nel tempo. Venne meno l’armonia prestabilita fra l’ordine del cosmo e l’ordine della conoscenza. Tutte le entità che popolavano il cosmo medioevale erano inserite e classificate in una gerarchia nella quale i valori determinavano la collocazione spaziale delle entità.
Tale cosmo era limitato nello spazio e nel tempo, e i suoi limiti definivano i limiti del pensiero. La sua saldezza era proporzionale all’impossibilità di una sua effettiva evoluzione. Gli sviluppi della conoscenza non avrebbero potuto condurre a reali sorprese, giacché era la stessa struttura della realtà a indicare e a regolare le possibili direzioni di questi sviluppi. L’età moderna si aprì con la difficile impresa di estendere le conoscenze dal mondo chiuso all’universo infinito. Ma si aprì anche con l’impresa, altrettanto difficile, di imparare a vivere e ad abitare in un pianeta disperso nell’universo infinito, in un mondo contemporaneamente chiuso e aperto rispetto alle immense estensioni degli spazi siderali. Nelle origini stesse dell’età nuova, segnate dall’esplorazione di terre e di mari e dalla rivoluzione nei cieli, era presente una tensione fondatrice tra finito e infinito, fra chiusura e apertura, tra i confini delle collettività locali e le nuove reti di relazioni planetarie e cosmiche.
(da G. Bocchi e M. Ceruti, Origini di storie, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 104, 106-107)*
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