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Il primo e ineludibile punto di partenza è quello relativo alla formazione del cosiddetto Stato moderno e alla individuazione dei suoi elementi qualificanti. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, il dibattito storiografico ha contribuito a ridimensionare fortemente le categorie giuspubblicistiche nell’interpretazione delle dinamiche politiche delle società rinascimentali e d’antico regime. La tradizionale lettura oggettivante ed attualizzante dei processi di formazione dello Stato moderno ha lasciato il posto ad uno sguardo più problematico, aperto alla valorizzazione di una policentricità caratterizzante gli assetti politici e le realtà istituzionali dell’età moderna. Dopo la faticosa metabolizzazione delle ricerche di Otto Brunner, gli studiosi preferiscono ora parlare di Stato per ceti. Dar credito a questa ipotesi interpretativa costringe però a sciogliere preliminarmente l’altro nodo che comunemente si accompagna al dibattito storiografico sullo Stato moderno: quello relativo alla natura centralistica di quel modello di Stato o, piuttosto, alla “assolutezza” dei poteri sovrani emergenti da quella costruzione a partire dal secolo XVI. È ovvio ritenere che lo Stato per ceti si atteggi a qualcosa di nettamente confliggente con l’identità dello Stato assoluto o, per meglio dire, con quelle qualità di fondo che finora all’etichetta di Stato assoluto era parso naturale associare. In realtà, le più aggiornate interpretazioni storiografiche, dopo aver contestato l’affidabilità di una caratterizzazione assolutista dello Stato moderno, fondato più che altro sulle costruzioni dei teorici della politica dei secoli XVI e XVII, hanno provveduto, più che a ripudiare la categoria dello Stato assoluto, a ridisegnarne le coordinate sulla base dei concreti rapporti giuridici operanti all’epoca. La “assolutezza” dello Stato o, più correttamente, della sovranità principesca appare oggi come un programma politico di trasformazione di alcuni tra i fondamenti del potere politico ereditati dal medioevo, programma che, in quanto tale, non va a sua volta – mi si scusi il calembour – assolutizzato, ma recepito nella sua più autentica natura, vale a dire come un deciso indirizzo di governo, costretto comunque a fare i conti con la complessa rete di corpi sociali e di realtà territoriali portatori di interessi e di norme autoprodotte con correnti o addirittura contrastanti l’istanza accentratrice – in ciò consiste in ultima analisi la formula assolutista – dei sovrani delle grandi monarchie europee.
(da C.E. Tavilla, Sovranità e leggi fondamentali: alla ricerca di una dimensione costituzionale nell’Europa moderna (secc. XV-XVIII), «Giornale di storia costituzionale», 25, 2013, pp. 161-180)
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