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Quando ci si accorse che la caduta dell’impero non aveva comportato la fine del mondo, cominciò a farsi strada nella coscienza ortodossa la convinzione che l’impero era finito soltanto storicamente, ma non teologicamente: in tale prospettiva esso era semplicemente vacante. Questo convincimento si manifestò soprattutto nell’Ortodossia greca: la dignità imperiale, venuta meno per circostanze storiche – principalmente per una sanzione collettiva, secondo il modello veterotestamentario, per i peccati del popolo -, è stata surrogata dalla Chiesa stessa. Facilitò indubbiamente questa soluzione il ruolo istituzionale che il patriarca ecumenico si vide conferito dai conquistatori, quello cioè di capo del millet cristiano-ortodosso dell’impero ottomano. Per queste prerogative civili – esercitate anche nei confronti degli altri tre patriarchi orientali, divenuti essi pure sudditi del sultano – il primate costantinopolitano venne assumendo insegne proprie della simbolica del potere imperiale. (…)
Un secondo punto qualificante l’ideologia imperiale romano-cristiana – dopo la coincidenza nello spazio e nel tempo di Chiesa e impero – è rappresentato dalla sacralità di questa monarchia universale. Al culmine di un’elaborazione dottrinale in cui sono confluite componenti egiziane e iraniche, mediate dalla regalità ellenistica e da quella tardo-romana, l’unico imperatore romano cristiano assume, nella teologia politica di Eusebio di Cesarea, ideologo nonché biografo del «pari agli apostoli» Costantino, la duplice prerogativa d’immagine vivente di Dio Padre monarca universale e di vicario terreno del Figlio di Dio, al quale il Padre ha delegato la sua sovranità cosmica. La dualità insita nell’essere dell’imperatore a un tempo uomo e più che uomo (ma non essere divino), ci porta a un’altra dualità propria del sentire ideologico-politico che l’Ortodossia ha ereditato da Bisanzio, quella relativa alle due sfere, religiosa e civile, nelle quali si articola l’unico e indiviso potere di matrice divina. Si tratta di un terzo punto qualificante l’ideologia imperiale romano-cristiana, che presuppone l’unità e indivisibilità della nozione di “potere” nella società cristiana. In esso Stato e Chiesa non sono due distinte istituzioni, ma semplicemente i due diversi ordini giuridici nei quali si esprime la nozione d’impero universale, non diversamente da come, in questa società cristiana, cura delle anime e governo dei corpi non sono espressione di due distinti poteri, bensì due aspetti della dinamica salvifica del regno di Dio. Questi due ordini giuridici vengono espressi nei due distinti ambiti di competenza della regalità e del sacerdozio, impersonati rispettivamente dall’imperatore e dai patriarchi. I due aspetti, regale e sacerdotale, dell’autorità devono rimanere distinti, senza sovrapposizione di ambiti di competenza – pena il collasso di tale sistema ideologico-politico -, ma sono intrinsecamente necessitati a muoversi in sintonia o consonanza. Si capisce allora come non abbia alcun senso analizzare le tensioni interne a questo tipo di società con i criteri metodologici relativi allo studio delle relazioni Stato-Chiesa: in questa civilizzazione il problema dei rapporti Stato-Chiesa semplicemente non si pone.
(da E. Morini, Gli Ortodossi, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 108-114)*
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