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L’immagine del processo di apostasia che le narrazioni esaminate restituiscono è assai più complessa e sfaccettata di quella che comunemente emerge dai resoconti giornalistici e mediatici, così come dai discorsi delle associazioni anticulto. Queste storie, inoltre, mal si adattano alle categorie interpretative pseudoaccademiche che raffigurano l’adesione ai Nuovi movimenti religiosi (NMR) come l’esito di un processo di erosione della volontà, di un brainwashing, che priva i convertiti e, di conseguenza, anche gli apostati di competenze decisionali e capacità riflessive che normalmente si è invece disposti ad attribuire agli attori sociali in altri campi dell’agire. I convertiti e gli apostati si mostrano invece come attori sociali in senso proprio, dotati di quella agency che consente loro di scegliere della propria vita in base a preferenze e convinzioni. Sono seekers, «cercatori», cioè soggetti impegnati in prima persona in un percorso di ricerca di senso capaci di scegliere autonomamente e attivamente l’opzione spirituale cui aderire all’interno di un panorama religioso pluralistico che – nel mondo, così come in Italia – offre sempre più un’ampia varietà di fedi vecchie e nuove.
La dimensione di agency viene solo in parte attenuata dal richiamo – presente in alcune narrazioni – di una fase di crisi che precede ora la conversione, ora l’apostasia. La presenza di uno stato di crisi personale rappresenta l’antefatto della conversione in poco più di un quarto delle narrazioni raccolte. Da queste narrazioni emerge la figura di un narratore che versa in una condizione di disagio, di norma correlato a problemi più o meno gravi, in ambito familiare o lavorativo; problemi che lo spingono a ricercare o lo predispongono ad accogliere la proposta di un’organizzazione religiosa. In questa proposta il narratore trova, nel messaggio di leader, maestri, testi sacri, una provvisoria risposta alle sue domande esistenziali. Accanto alla dottrina o in sostituzione a essa, il convertito trova un contesto sociale all’interno del quale instaurare relazioni fiduciarie, una «nuova famiglia». In altri casi, la crisi viene superata con l’adesione a una disciplina di vita, retta su regole e valori talvolta in aperto contrasto con quelli dominanti nel resto della società.
Come il convertito, che è figura emblematica del dinamismo della religiosità contemporanea, anche l’apostata da un NMR ben rappresenta il profilo dell’attore religioso individuato dal paradigma della spiritualità moderna, intesa come ricerca e sperimentazione continua, realizzazione e progettazione del sé in modo indipendente dall’identità religiosa ascritta per nascita. Quanto emerge dalla letteratura ovvero il carattere processuale dell’apostasia, trova conferma nel modo più ampio all’interno delle narrazioni esaminate. Per nessuno dei nostri apostati la presa di congedo segue immediatamente l’emergere dei primi dubbi, per procrastinarsi, invece, nel tempo anche dopo che la decisione di prendere congedo dal gruppo di cui si è parte ha assunto un carattere perentorio. La presa di congedo dai NMR (…) è un processo lungo, accidentato e, non di rado, doloroso. L’insorgenza dei primi dubbi è quasi sempre affrontata con un oneroso lavoro di riparazione, emotivo, cognitivo e relazionale. Si tenta di porre rimedio e di armonizzare le stonature finché le anomalie non si accumulano al punto tale da risultare intollerabili. Le porte e i cancelli del gruppo religioso sono fisicamente aperti, oltrepassabili. Ma l’uscita ha un costo che è commisurato al forte investimento biografico del convertito. Chi ha trascorso anni o decenni all’interno di un’organizzazione religiosa – per alcuni apostati si tratta di gran parte della loro vita – magari ricoprendo ruoli di responsabilità e di prestigio, ha difficoltà sia oggettive che soggettive a prenderne congedo. All’esterno gli apostati – di norma – hanno perso o affievolito i contatti con familiari, parenti e amici, sostituiti dalla «nuova famiglia» trovata nel gruppo cui hanno aderito. Talvolta, inoltre, coloro che si apprestano a lasciare un NMR non hanno competenze professionali adatte al mercato del lavoro, come nel caso degli ex damanhuriani che hanno svolto un’attività lavorativa esclusivamente all’interno della comunità. A ciò si aggiungono le difficoltà di ordine economico, che estendono il travaglio del congedo sino a quando si profila un’occupazione o una casa minimamente adeguati allo scopo. Ma ancora più vincolanti sono le difficoltà di natura soggettiva. L’apostasia impone di terminare un percorso di vita di lungo periodo, di chiudere un capitolo che, nel bene o nel male, ha rappresentato pagine significative della propria esperienza personale. Tutto ciò comporta, inoltre, la consapevolezza di un fallimento, che, per analogia, ha diversi tratti in comune con la fine di un matrimonio e con il divorzio. Chiudere quel capitolo vuol dire ammettere di aver compiuto delle scelte sbagliate che hanno ricadute di rilievo sul proprio corso di vita.
(da M. Cardano e N. Pannofino, Piccole apostasie. Il congedo dai nuovi movimenti religiosi, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 298-300)*
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