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Al centro dell’intero progetto di ricerca delle scienze cognitive c’è un modello, quello del calcolatore. Il cognitivismo prende alla lettera questo modello e afferma che la mente funziona come un calcolatore, anzi è un calcolatore (biologico). E cosa fa un calcolatore, fisicamente? Trasforma numeri in altri numeri, e questi, a loro volta, attivano dei dispositivi meccanici (ad esempio, un braccio meccanico) che compiono determinati movimenti (l’output). Ma cosa è un numero, per il calcolatore? Un certo stato fisico (ad esempio, una determinata tensione elettrica su un determinato circuito) che, proprio in quanto stato fisico, si può trasformare in un altro stato fisico. […]
In questo quadro, secondo il filosofo e scienziato cognitivo Jerry Fodor, «prendere una decisione è un processo computazionale; l’atto che l’agente esegue è la conseguenza di computazioni definite su rappresentazioni di azioni possibili. Senza rappresentazioni non ci sono computazioni». La chiosa finale è il centro dell’argomentazione: se la mente è affine a un calcolatore, e questo esegue calcoli su rappresentazioni (numeri, ad esempio), senza rappresentazioni non possono esserci calcoli, e quindi – nella analogia – mente. Una teoria scientifica della mente presuppone quindi che la mente sia un sistema logico capace di effettuare calcoli su rappresentazioni. Ma intanto, che tipo di calcoli? Se il nostro agente si trova nella situazione S, e crede che – quando si è in S – se A allora B, siccome vuole B allora deve prima «scegliere» A. Questa inferenza, perché la nostra teoria della mente non sia dualistica, deve accadere da qualche parte, cioè mediante e sulle rappresentazioni: «I processi cognitivi sono processi computazionali e pertanto presuppongono un sistema rappresentazionale». Il punto centrale è questo: il pensiero razionale è una specie di calcolo, e siccome vogliamo costruire una teoria scientifica del pensiero umano – ossia una psicologia scientifica – è necessario anche specificare che cosa calcolino quei pensieri. Calcolano appunto rappresentazioni, le quali, sempre per evitare il dualismo, devono poi essere entità materiali, perché solo in questo modo potrebbero muovere il corpo. […]
Ma allora, se pensare significa effettuare calcoli su rappresentazioni, e se le rappresentazioni sono – fisicamente – forme (infatti solo se sono forme, se cioè sono cose possono avere effettivi poteri causali), allora, di fatto, che cosa c’è dentro la mente? Una mente che rispetti la «condizione di formalità» cosa potrà pensare? Un po’ alla volta diventa chiaro che la mente come è pensata dalla teoria rappresentazionale è e deve essere affatto vuota. Non solo questa mente non pensa nulla, ma le è anche costitutivamente preclusa la possibilità stessa di accedere al mondo: per questo il cognitivismo rappresentazionalista deve adottare la strategia di ricerca del «solipsismo metodologico», perché appunto questa mente non contiene nulla, è isolata e senza contatti con ciò che si trova al di fuori di sé. In realtà non è nemmeno in rapporto con se stessa, perché una forma, in quanto forma, non sa nulla, semmai è qualcosa, una cieca e inconsapevole cosa. Ma se questa è la sconsolante conclusione a cui arriva il cognitivismo rappresentazionalista, che sostiene di sé d’essere l’unico approccio scientifico (e naturalistico) alla mente, in che senso questa è ancora una mente? In che senso può dirsi scientifica una teoria di un oggetto che ha come conclusione fondamentale che quello stesso oggetto non esiste?
(da F. Cimatti, Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 81, 87, 99-102)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.