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Un tratto peculiare delle “nuove guerre”, forse il tratto peculiare, è la loro connessione con politiche dell’identità, vale a dire con «movimenti che muovono dall’identità etnica, razziale o religiosa per rivendicare a sé il potere dello Stato» (Mary Kaldor). Nel linguaggio giornalistico e nell’opinione pubblica occidentale si è infatti parlato prevalentemente di conflitti etnici o, nel caso dell’Africa, tribali, intendendo con questo che:
a) i gruppi in conflitto sono definiti sulla base di un’appartenenza e di vincoli pre-politici, cioè della condivisione di certi tratti razziali e culturali (il “sangue”, la lingua, la religione ecc.) concepiti come patrimonio antichissimo e primordiale;
b) le cause del conflitto, al di là di specifiche contingenze storiche, sono da individuarsi in odii ancestrali tra gruppi etnici, che covano costantemente sotto la cenere per emergere periodicamente in modo esplosivo.
In molti casi, una simile concezione primordialista dell’appartenenza e del conflitto è esplicitamente sostenuta e usata come forza ideologica e strumento di consenso dalle parti in lotta. Ora, laddove non assuma tinte decisamente razziali, una simile concezione dell’appartenenza sembra poggiare su categorie antropologiche quali cultura, tradizione, identità (…). Culture e identità sono state intese come essenze più o meno immutabili, quasi-naturali, non costruite nella storia e nei rapporti politici ma date prima e indipendentemente dalla politica e dagli eventi storici. Inoltre il loro segno è progressivamente cambiato: se ne sono appropriati ideologie xenofobe e fondamentaliste, aggressivi nazionalismi e regionalismi, movimenti volti più al mantenimento del privilegio che al riconoscimento delle differenze. Una volta naturalizzati tali concetti sono stati posti a fondamento di politiche di pregiudizio e intolleranza, in una parola, di un atteggiamento neorazzista in un’epoca in cui il razzismo classico d’impronta biologica, screditato dall’uso fattone dal nazismo, non sembrava più sostenibile.
Nel dibattito degli ultimi decenni ha giocato un ruolo centrale la revisione del concetto di cultura. Da un lato, si è reagito all’essenzializzazione dell’identità culturale, insistendo sulla sua natura di costrutto teorico o di finzione retoricamente prodotta all’interno della scrittura etnografica: non una peculiarità dell’oggetto, dunque, ma una modalità dello sguardo antropologico. Dall’altro lato, si è cercato di mostrare che le rivendicazioni identitarie, laddove si diffondono in determinati contesti storico-sociali, lo fanno in relazione a precisi interessi o conflitti di potere, ai quali forniscono un supporto ideologico. Ne risulta che i discorsi dell’identità possono accompagnare i conflitti, ma non ne sono la causa: non rappresentano condizioni prepolitiche dei rapporti tra gruppi umani, e dai rapporti politici sono invece determinati. «Quando gli uomini entrano in conflitto non è perché hanno costumi o culture diverse, ma per conquistare il potere, e quando lo fanno seguendo schieramenti etnici è perché quello dell’etnicità diventa il mezzo più efficace per farlo» (Ugo Fabietti).
(da F. Dei, Descrivere, interpretare, testimoniare la violenza, in Id., a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp. 23-25)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.