Nel Buganda la kibuga raggiunge dimensioni veramente ragguardevoli: paragonata da certi visitatori europei del secolo scorso all’antica Roma, in quanto era adagiata su alcune colline, essa comprendeva diverse decine di migliaia di persone, e le dimensioni topografiche – secondo stime approssimative ottocentesche – erano di circa nove chilometri di lunghezza e tre di larghezza. A quanto pare, l’imponenza della città non costituisce quasi mai un ostacolo insormontabile alla sua mobilità, se è vero che anche la musumba, la capitale dell’impero dei Balunda, nello Shaba occidentale (Zaire), era composta nella prima metà del secolo XIX da circa 20.000 persone e, nonostante questo, veniva ricostruita in un nuovo posto all’avvento di ogni nuovo re. Un breve esame della capitale lunda, costruita e ricostruita secondo un modello zoomorfico ben preciso, consente di far risaltare un nesso significativo tra la mobilità della capitale e la riproduzione di un modello fisso: quanto più la capitale è mobile, tanto più diviene importante sottolineare l’inalterabilità del modello.
Forse da questo punto di vista risulta maggiormente comprensibile il simbolismo della capitale lunda, ovvero il fatto che essa – nonostante la sua periodica evanescenza – faccia proprie le qualità attribuite alla tartaruga, le quali sono, oltre alla saggezza e all’astuzia, la resistenza e la longevità. Anche l'”errante” kibuga ganda veniva ricostruita sulla base di un unico modello che si ripeteva continuamente.
Sarebbe affascinante poter indagare in modo approfondito i motivi che determinano questo tratto così tipico di molti regni africani. Per accontentarci di qualche accenno, è opportuno collegare la mobilità di queste capitali al periodo di anarchia e di caos sociale che invariabilmente si apre al momento della successione al trono. Tra gli Azande, morto un re, la sua corte viene abbandonata; il regno perde il proprio centro; scoppia la guerra tra i fratelli, figli del vecchio re, da costui posti a capo delle diverse province; l’unità stessa del regno scompare e le province acquisiscono la più completa autonomia; colui che risulta vincitore dalla guerra fratricida guadagnerà la provincia centrale e lì costruirà la propria corte, la nuova capitale. È importante notare che l’anarchia dell’interregno non si presenta soltanto là dove la successione è affidata agli esiti della guerra fratricida (secondo la regola del “vinca il più forte”), ma è una costante presente in numerosissimi regni africani pre-coloniali, anche in quelli nei quali la successione – come, per esempio, nel Benin – viene regolamentata attraverso il criterio della primogenitura. La dislocazione della capitale si unisce con la più diffusa anarchia rituale per segnare in modo ancora più marcato la discontinuità tra un regno e l’altro. Vi sono diversi aspetti di questa discontinuità che meritano di essere segnalati. In primo luogo, è chiaro che si tratta di una personalizzazione delle strutture di governo: la capitale nasce e muore con il sovrano, il quale in alcuni casi sceglie il luogo dove costruirla.
In secondo luogo, la fine di un regno è anche la fine di un ordine; e il disordine – dovuto non soltanto alla guerra tra i pretendenti, ma all’abbandono di ogni regola morale e giuridica tra i cittadini – contribuisce indubbiamente a richiamare la necessità di un centro di potere generale, di un re, di una capitale, che siano garanzia di ordine e di convivenza. Ma si può anche sottolineare, in terzo luogo, il ritorno ciclico a un’originaria acentricità politica, a una situazione caratterizzata dall’assenza di un re e di una capitale.