Una chiarificazione del rapporto tra filosofia, cinema e felicità può essere condotto, secondo Umberto Curi, a partire dalle due definizioni di felicità proprie della Grecia antica. La prima, makaria, indica lo stato di coloro che hanno raggiunto stabilmente una felicità piena e compiuta. Tale stato di beatitudine, tuttavia, è raggiugibile solamente dagli dei e dai defunti, in particolare gli eroi. Si tratta, evidentemente, di una situazione caratterizzata dal non essere soggetti al tempo e dalla lontananza utopica da ogni luogo terrestre. La seconda forma di felicità descritta in epoca classica è l’eudaimonia. La radice del termine – demone, carattere o, in latino, genio – indica l’unica possibilità di felicità che è dato esperire agli uomini in vita: l’essere contenti di sé (letteralmente: stare nei propri limiti). Colui che gode della makaria è colui che vede perfettamente, non solo ciò che si manifesta nelle apparenze, ma anche ciò che comunemente resterebbe invisibile e che, in termini moderni, potrebbe definirsi come la struttura intelligibile. Il passaggio tra cinema e felicità intesa come makaria è dunque evidente, poiché nel cinema si dà espressamente la possibilità di vedere ciò che altrimenti sarebbe invisibile. Il cinema sembra infatti promettere la possibilità di una visione completa, in cui si dà la medesima infrazione delle dimensioni spazio-temporali proprie della makaria. Allo stesso tempo, il cinema conserva però la costante consapevolezza di essere fictio. Il cinema può dunque esprimere l’inattingibilità della makaria, visto che essa può darsi solo nell’ambito di un orizzonte fittizio, e all’interno di una condizione umana immaginata e desiderata ma non attinta.