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Il “modernismo” fu, di fatto, un insieme di tentativi di riformare il cattolicesimo dall’interno, attraverso un ripensamento della dottrina e delle istituzioni ecclesiastiche alla luce delle istanze più significative espresse dalla civiltà moderna nord-occidentale tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. La crisi modernista fu innescata dalla drastica reazione promossa dal papato e dalla Curia romana – il vertice della gerarchia ecclesiastica cattolica – contro questo “filone” riformistico. Essa rappresentò la fase più acuta del confronto plurisecolare del cristianesimo cattolico con il moderno, inteso dalla Chiesa romana soprattutto come istanza di autonoma determinazione dell’uomo nella vita individuale e collettiva. Tale istanza contribuì in modo significativo, tra l’altro, allo sviluppo di società orientate verso un modello democratico; portò all’emancipazione da ogni prospettiva e sistema di valori compiuto e di carattere assolutistico; favorì l’affermazione delle scienze legate alle metodologie critiche e sperimentali e nello stesso tempo fu da queste rafforzata. Quest’ultimo aspetto è difficilmente trascurabile per le sue conseguenze, per certi versi decisive, sugli sviluppi del rapporto tra la fede e la ragione, come si usava dire a suo tempo, cioè tra la riflessione dottrinale elaborata dal magistero ecclesiastico e le discipline scientifiche, verificatisi nell’arco cronologico che dall’umanesimo giunge ai nostri giorni. Il conflitto tra la Chiesa cattolica e la modernità, precipitato poi nella crisi modernista, affonda dunque le proprie radici nel passato. Sia pure in termini poco rispondenti alla storiografia scientifica, lo asseriva anche l’ideologia del cattolicesimo intransigente (non si doveva transigere con i principi della modernità, come ricordò l’ottantesima proposizione del Syllabus, nel 1864), che a partire da Pio IX fu formalmente assunta dal papato come linea di pensiero e di azione. In effetti per conseguire la ricostruzione di un regime di cristianità, nel quale la società civile adeguasse i propri ordinamenti alle norme morali definite dalla Chiesa cattolica e in particolare dal papa, insomma per ribadire il potere direttivo delle istituzioni della Chiesa romana su quelle civili, il cattolicesimo intransigente elaborò una lettura della storia che si snodava lungo una “genealogia degli errori moderni”. I suoi teorici sostennero che l’eresia protestante di Lutero, oltre a scindere in due l’unità della cristianità medievale (in questa affermazione non vi era una sufficiente considerazione della portata dello scisma che aveva diviso l’Oriente e l’Occidente cristiani nel 1054), aveva introdotto, con il libero esame del testo biblico, un principio di indipendenza dal quale sarebbe scaturita l’orgogliosa autonomia dell’uomo moderno e la sua insubordinazione ai poteri tanto della Chiesa quanto dello Stato, entrambi considerati di fondamento divino. Da quell’errore iniziale ne erano derivati altri, via via più temibili, come in una catena di anelli consequenziali: il razionalismo illuministico, la rivoluzione francese, il liberalismo, poi nel corso dell’Ottocento il socialismo e infine il comunismo. La minaccia incombente sulla Chiesa, il cristianesimo, la stessa civiltà umana (identificata con quella cristiana affermatasi nell’Europa latina, cioè cattolica, durante il medioevo) era ormai quella della distruzione definitiva e del regresso alla barbarie.
Senza dubbio la crisi modernista fu una vicenda dotata di una sua autonomia e specificità – e come tale è possibile ed è anche opportuno continuare a studiarla – se la si osserva nei suoi sviluppi fattuali e se la si considera come tentativo di rinnovare l’esperienza religiosa di matrice cristiana: un tentativo che nasceva in primo luogo da cause e istanze connesse con gli orientamenti culturali del secondo Ottocento (dall’affermazione della conoscenza soggettivistica allo sviluppo di una nuova concezione della storia e dell’esegesi strettamente legate alle metodologie critiche, supportate da importanti scoperte archeologiche relative agli ambienti mediorientale e mediterraneo nei quali si erano inizialmente diffusi il giudaismo e il primo cristianesimo), con le dinamiche della società industriale, che viveva una fase di crescente e più estesa affermazione, con l’allargamento e l’approfondimento dei processi di secolarizzazione.
Tuttavia l’effettiva portata storica della crisi modernista può essere colta adeguatamente solo se la si inquadra negli sviluppi del cristianesimo sul lungo periodo, considerando il percorso delle diverse tradizioni confessionali, per far emergere le connessioni della crisi modernista con processi di più lunga durata, e per rilevarne le significative e per certi versi perduranti conseguenze, sia pure senza perderne di vista le peculiarità e senza forzare l’individuazione di elementi di continuità. Infatti quella crisi religiosa fu in senso stretto una vicenda interna alla storia della Chiesa cattolica, ma inquietudini e travagli in qualche misura non dissimili – sebbene con una portata ed esiti molto meno ingenti – emersero anche in altri contesti confessionali e religiosi: le tesi di Harnack e più in generale gli sviluppi della teologia protestante liberale, con le reazioni che suscitarono nelle Chiese riformate, e i fermenti interni al cristianesimo ortodosso e al giudaismo italiano (con i suoi singolari tentativi di autoriforma) nell’età giolittiana, sono espressioni indiscutibili di analoghi processi di rinnovamento, sia pure ciascuno dotato di sue specifiche caratteristiche.
(da G. Vian, Il modernismo. La Chiesa cattolica in conflitto con la modernità, Roma, Carocci, 2012, pp. 11-13)*
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