La vita deve il suo valore alla morte, ovvero, per usare l’espressione di Hans Jonas, è solo perché siamo mortali che contiamo i giorni e i giorni contano. Più esattamente, la vita ha valore e i giorni hanno peso perché noi, mortali, siamo consapevoli della nostra mortalità. Sappiamo che dobbiamo morire e che la nostra vita, per citare Martin Heidegger, significa vivere-per-la-morte. La consapevolezza dell’inevitabilità della morte avrebbe facilmente privato di valore la vita se la coscienza della sua fragilità e finitezza non avesse conferito un valore preminente alla durevolezza e all’infinità.
La consapevolezza della transitorietà della vita conferisce direttamente valore solo alla durata eterna. Essa dà obliquamente valore all’esistenza nella misura in cui sappiamo che, per quanto breve essa possa essere, lo spazio di tempo tra la nascita e la morte è la nostra unica opportunità di trascendenza, di appiglio all’eternità. Pertanto abbiamo bisogno di sapere come rifondere la trascendenza in durevolezza, come costruire un ponte che porti dalla finitezza all’infinità.
È stato a dispetto della ragione e della logica, anziché dietro loro consiglio, che la cultura umana ha intrapreso il compito della costruzione di ponti. Noi chiamiamo “cultura” il tipo di attività umana che in ultima istanza consiste nel rendere solido ciò che è volatile, nel collegare il finito all’infinito, e altrimenti nel costruire ponti che colleghino la vita umana a valori immuni dall’impatto erosivo del tempo.
La cultura è riuscita a costruire molte specie di ponti. La concezione della vita-dopo-la-morte è stato uno dei più usati. Contrariamente a quanto pensano i suoi critici, tale concezione non contrasta con l’esperienza comune. Noi tutti sappiamo che i pensieri hanno un’esistenza in qualche modo indipendente da chi li pensa, sappiamo che essi provengono da tempi nei quali chi li ha pensati non c’era ancora e ci aspettiamo che essi verranno ri-pensati nei tempi misteriosi nei quali chi li pensa attualmente non ci sarà più. E da questa esperienza all’idea che l’anima, il sostrato incorporeo dei pensieri, conduca un’esistenza diversa da quella del suo involucro corporeo e temporale, il passo è brevissimo. Credere nell’immortalità del corpo è una pretesa assurda, ma dubitare dell’esistenza dell’anima oltre la vita è ugualmente difficile.
Se la durata dell’anima, a paragone della vita corporea, è eterna, la sua breve coabitazione con il corpo non è che un’apertura su di una vita infinitamente più durevole e pertanto infinitamente più preziosa e importante. La coabitazione con il corpo può forse essere ridicolmente breve a paragone della lunghezza della successiva esistenza solitaria dell’anima, ma è durante quella vita in comune che la qualità della vita eterna viene decisa: una volta rimasta da sola, l’anima non potrebbe cambiare alcuna parte del proprio destino. Il mortale ha un potere sull’immortale: la vita mortale è l’unico momento nel quale si possono ottenere crediti per l’eternità.
Ponti moderni e nuovi di zecca furono presto gettati sul precipizio che separa il transitorio dal durevole. I ponti moderni differivano da quelli ormai crollati per il fatto che collocarono guardie e guide umane su entrambi i lati. Non che venissero costruiti con l’intenzione di espellere il sacro e il divino dalla vita umana: la loro descrizione come prodotti della secolarizzazione è giustificata solamente nella misura in cui essi hanno avuto conseguenze secolarizzanti.
Due sono i tipi di ponte particolarmente “moderni”, ossia fatti a misura degli esseri rimasti orfani cui è consentito fare affidamento solamente sulle loro membra o sui veicoli che inventano. I ponti del primo tipo sono destinati, per così dire, ai pedoni: cioè all’uso di singoli vagabondi. I ponti del secondo tipo sono costruiti per accogliere i mezzi pubblici di trasporto. La modernità di entrambi consiste non tanto nella loro originalità (da tempo immemorabile, sul posto dove sono stati costruiti questi ponti, sorgono delle passerelle) quanto nella centralità del ruolo che in tempi moderni essi hanno giocato in assenza di passaggi alternativi per l’immortalità.
I due principali ponti capaci di sopportare il peso della massa eretti in tempi moderni per la circolazione a doppio senso tra mortalità individuale e valori eterni si stanno sgretolando. Le conseguenze per la condizione umana, per i destini della vita e per le strategie di vita sono enormi. L’inventario delle conseguenze è lungo e lungi dall’essere stato registrato in modo completo. In questa occasione ci limiteremo a una rapida rassegna di alcuni elementi tratti da questa lunga lista.
Riferimenti Bibliografici
- P. Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Roma-Bari, 1980*;
- Z. Bauman, Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Bologna, 1995*;
- Z. Bauman, Le sfide dell’etica, Milano, 1996*;
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- A. Giddens, La trasformazione dell’intimità: sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Bologna, 1995*;
- E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780: programma, mito realtà, Torino, 1991*;
- H. Jonas, Il principio responsabilità: un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Torino, 1991*;
- J.F. Lyotard, La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Milano, 1981*;
- M. Thompson, Rubbish Theory: The Creation and Destruction of Value, Oxford, 1979;
- M. Vovelle, La morte e l’Occidente: dal 1300 ai giorni nostri, Roma-Bari, 1986*.
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