Il mito di Prometeo ricorre in tutto l'arco della tradizione culturale dell'Occidente dai poemi omerici fino al cuore del Novecento, ma si possono trovare riferimenti ad un personaggio molto simile anche in altre civiltà e tradizioni. Sulla fortuna della figura prometeica Umberto Curi ha messo in evidenza come in tutte le diverse versioni di questo mito vi sia un tratto distintivo inconfondibile: Prometeo è colui che, mosso dalla filantropia, salva il genere umano e, al tempo stesso, lo costituisce nella sua specifica peculiarità.
E' soprattutto nell'Ottocento che la figura di Prometeo ha goduto di una particolare fama, con Goethe e Schlegel ad esempio, ed è stato rappresentato come colui che ha salvato l'umanità donandogli la tecnica. Umberto Curi si pone a distanza rispetto a questa interpretazione, sottolineando come in essa sia ben individuabile un paradosso. Nelle versioni classiche del mito, infatti, nel Prometeo incatenato di Eschilo ad esempio, viene affermata la radicale infondatezza della tecnica e la sua incapacità di soccorrere davvero il genere umano.
Al fine di superare questa contraddizione, Umberto Curi interpreta il mito di Prometeo a partire dalla colpa gravissima da esso commessa. Prometeo ha infatti cercato, spinto dalla filantropia, di sottrarre il genere umano dalla sua condizione di essere mortale, o meglio ancora, lo ha salvato dall'ossessione continua di guardare con paura all'ultimo giorno della vita, infondendo loro la speranza, come vero tratto distintivo dell'essere umano rispetto agli altri animali.
Occorre altresì sottolineare, ha proseguito Curi, come la pena inflitta da Zeus a Prometeo non possa essere eterna: sarebbe infatti inaccettabile una figura salvifica, che si autoimmola e che poi resta perpetuamente legata ad una punizione. Facendo però riferimento ai frammenti in lingua latina del Prometeo portatore di fuoco e del Prometeo liberato emerge come il termine della pena consiste nell'acquisizione della consapevolezza dell'amore per la morte, amor mortis. Il mito di Prometeo avrebbe dunque, secondo Umberto Curi, il fine di mostrare l'esito comunque tragico di qualunque titanismo, cioè di qualunque tentativo di sconfiggere una volta per tutte la morte, rispetto al quale si porrebbe la possibilità di riconoscerla come quel limite che conferisce significato alla vita stessa e attribuisce ad essa la sua peculiarità.