Lo scrittore Elie Wiesel lo ha definito uno strano profeta goffo e sfortunato, un esemplare antieroe con la predilezione per il fallimento e la tragedia. Non è celebre, il suo fascicolo è povero di dati, non si sente desiderato e rifiuta di andare dove Dio lo manda. Eppure, per le leggende midrashiche, Giona è un vero Giusto e la sua storia viene narrata in un giorno importante, lo Yom Kippur, anche se al crepuscolo, poco prima del canto finale. Un riempitivo? Una vicenda accessoria? Lo stesso libro biblico che porta il suo nome termina curiosamente con una domanda piuttosto che con un’affermazione, un ordine, un’esclamazione.
La trama è scarna, ma avventurosa: Giona riceve da Dio l’ordine di recarsi a Ninive con un preciso proclama: o il pentimento dalla malvagità o la distruzione della città nel giro di quaranta giorni. Ma il profeta scappa su una nave diretta da Jafò a Tarshish, proprio nella direzione opposta, lontano da Ninive e dalla richiesta divina.
Una tempesta improvvisa mette in pericolo nave e marinai e Giona, per placare l’ira di Jhwh, chiede di essere gettato in mare. Potrebbe essere la fine della storia, ma un grosso pesce, forse una balena, lo raccoglie e lo tiene dentro di se per tre giorni e tre notti. Da quella “prigione sottomarina” il profeta viene risputato vivo sulla terraferma e si decide a raggiungere finalmente Ninive, dove il popolo ascolta il suo appello, digiuna e si pente.
La città viene risparmiata, ma proprio per questo Giona si indispettisce e si lamenta con Dio, il quale, attraverso la storia del ricino sorto e morto in un giorno, annuncia il senso universale della sua misericordia.