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Il libro di Giona è il quinto della serie dei dodici profeti minori. Un libro unico nel suo genere, non solo per la sua brevità – è infatti composto di soli 48 versi – ma anche perché, diversamente da altri libri in cui sono riportate le parole dei Profeti, il libro di Giona è incentrato sul racconto di un’avventura e sulle vicende di un protagonista, quasi come in un romanzo.
Eppure, proprio questa storia, assurta a esempio di linguaggio simbolico e universale, è divenuta il libro della teshuvà – pentimento, ritorno, risposta – per antonomasia tanto da essere letta ogni anno come haftarà (brano profetico) durante la tefillà di Minchà (preghiera pomeridiana) del Giorno di Kippur al crepuscolo, nella suggestiva attesa del canto finale della Neilà (preghiera conclusiva).
La storia ha inizio quando l’Eterno ordina a un certo Giona, figlio di Amittai, di recarsi a Ninive, una grande città sul Tigri, la capitale degli assiri, per avvertire gli abitanti di pentirsi se non vogliono che la loro città venga distrutta nel giro di quaranta giorni.
Giona non può fare a meno di ascoltare la voce dell’Eterno, e diviene così un profeta. Egli è dunque un profeta involontario e forse per questo, sebbene sappia che cosa gli è stato chiesto di fare, cerca di sottrarsi al comando del Signore o in un’interpretazione in chiave psicologica cerca di sottrarsi alla voce della sua coscienza.
Si racconta che Giona sia sceso al porto di Giaffa dove è salito su una nave che avrebbe dovuto portarlo a Tarshish, località situata a occidente, ossia in direzione opposta rispetto a Ninive. Ma in mezzo al mare si scatena una tempesta e, mentre i marinai sono agitati e impauriti, Giona scende nel ventre della nave e piomba in un sonno profondo. I marinai, credendo che un dio abbia suscitato la tempesta per punire qualcuno che si trova sulla nave, svegliano Giona, il quale confessa che sta cercando di sfuggire dal comando dell’Eterno e dice loro di prenderlo e di gettarlo in mare per placare i flutti perché è lui stesso la causa della tempesta.
I marinai, dopo aver cercato altre soluzioni rivelando così un notevole senso di umanità, sono infine costretti a prendere Giona e a gettarlo in mare. La tempesta immediatamente si placa.
Il profeta viene subito inghiottito da un grosso pesce e rimane nel suo ventre per tre giorni e tre notti. Egli prega il Signore di liberarlo da quella prigione. Il Creatore fa sì che il pesce vomiti Giona sulla terraferma. Ora Giona si reca finalmente a Ninive, adempie al comando dell’Eterno e salva così gli abitanti della città.
La storia è narrata come se questi avvenimenti fossero realmente accaduti, ma il linguaggio usato va letto in chiave simbolica e tutto ciò che capita a Giona è in realtà una rappresentazione delle sue esperienze interiori. Possiamo leggere una catena di simboli che si susseguono uno dopo l’altro: salire sulla nave, scendere nel ventre di essa, cadere addormentato, trovarsi in mare aperto e infine nel ventre del pesce. Tutte queste situazioni ci raccontano la medesima esperienza interiore, la condizione di trovarsi protetto, isolato e distaccato da ogni possibilità di comunicazione con gli altri esseri umani. Benché il ventre della nave, il sonno profondo, il mare e il ventre del pesce siano in realtà diversi l’uno dall’altro, sono comunque espressioni della medesima esperienza interiore, cioè della fusione dei concetti di fuga e di isolamento. (…)
Ed è paradossale che proprio Giona, l’ebreo, debba salvare Ninive, la futura distruttrice di Israele! Come scrive Wiesel nel suo Cinque figure bibliche, «sconfitto dalla vita, umiliato dal Signore, questo antieroe, benché scelga la disperazione per se stesso, pensa agli altri prima di pensare a se stesso. Sceglie la vita, sebbene piena d’angoscia, per impedire agli altri di morire». Questo significa imparare a navigare con il ruach, lo spirito dell’Eterno, per essere figli delle Sue Verità.
(da R. Della Rocca, Con lo sguardo alla luna. Percorsi di pensiero ebraico, Firenze, Giuntina, 2015, pp. 100-113)