Isolati e connessi, si dice. È una condizione ormai comune, planetaria. Il coronavirus ha accentuato questa situazione? Siamo (quasi) tutti a casa e per fortuna si può restare connessi. E nel silenzio delle strade, dove si sentono quasi soltanto abbaiare i cani e cinguettare gli uccelli tra gli alberi (per chi gli alberi li può almeno vedere dalle finestre), comincia ad affiorare un dubbio. Essere connessi in un mondo rallentato, quando non si è avvolti dalla convulsione di un tempo che incombe ansioso e pure angoscioso, dove non si è assordati dal rumore di fondo di auto che passano, si incrociano e fanno la fila sulle strade, è forse un po’ diverso che avere gli auricolari attaccati nel bel mezzo della strada in attesa di un bus o nella galleria aspettando il metro, con gli occhi abbassati sul display del cellullare a vedere cosa succede in facebook o in whatsapp. Non è questione dell’essere connessi, è questione dell’essere isolati in un mondo che non può sopportare il vuoto del tempo e, nello stesso tempo, non sa come riempirlo se non coprendolo con un altro vuoto. Da qui i problemi dell’attenzione, da più parti rilevati e denunciati. Vi è una perdita dell’attenzione. Non ci si riesce a concentrare che per poco tempo, poi bisogna passare altrove. Vuoto che copre vuoto. E il vuoto crea ansia e l’ansia l’angoscia e poi il panico. Credi di controllare facilmente tutto con un dito che sa cliccare e invece non controlli niente e la mancanza di controllo dà le vertigini, perché il disordine frantuma un finto ordine, demandato all’individuo isolato che non riesce a stare al passo con il tempo a meno di non prendere qualche pillola o qualche goccia oppure di bere o di farsi. L’attenzione implica governo del tempo. Ma come fa a esserci un governo del tempo se è il tempo che ti governa? Il problema dell’essere isolati e connessi dipende non certo dalla connessione, bensì dall’individualismo nel mondo competitivo e concorrenziale della società capitalistica, che ha aumentato la sua aggressività nella sua versione neoliberista.
Enrico Campo ha scritto un libro sull’attenzione che ha per titolo: La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale. È il frutto di un’attenta ricerca e di un’intelligente riflessione che tenta di andare oltre gli stereotipi che vedono nella crisi dell’attenzione una sindrome puramente cognitiva e puramente individuale. La crisi dell’attenzione ha a che fare con i contesti storici, culturali, sociali; soprattutto ha a che fare con i processi collettivi che strutturano e disciplinano la vita della società attuale. Enrico Campo non si confronta soltanto con gli studi sociologici specifici sull’argomento. Giustamente prende la questione a partire da temi più vasti, come quello della modernità, e, discutendo in particolare le teorie, tra gli altri, di Simmel, Benjamin, Koselleck, affronta il concetto di accelerazione del tempo. Il tema del futuro, così potente, nel bene e nel male, fino al secolo scorso e ora quasi del tutto pericolosamente scomparso dall’orizzonte culturale e mentale delle donne e degli uomini d’Occidente, determina il rapporto tra attenzione e distrazione.
Dal punto di vista dell’agire umano legato al lavoro, nel XVIII secolo già Adam Smith, il padre dell’economia politica, si era reso ben conto e in modo non usuale del rapporto tra attività lavorativa e attenzione. Egli sosteneva che la ripetitività di un’azione, come nel caso degli operai di una fabbrica di spilli organizzata secondo la divisione e la parcellizzazione delle mansioni, uccideva l’intelligenza delle donne e degli uomini, mentre, al contrario, la varietà delle azioni degli Indiani americani durante la loro giornata, aiutava lo sviluppo della loro intelligenza. E Marx concepiva il lavoro non sfruttato come attenzione creativa, esattamente quella che viene tolta nello sfruttamento del sistema capitalistico di produzione o, se vogliamo usare il termine di Mark Fisher, del realismo capitalista. Ma ciò di cui si occupa brillantemente Enrico Campo è l’analisi dell’attenzione e della sua crisi nell’epoca digitale, sottomettendo a critica le visioni individualistiche e universalistiche della psicologia contemporanea e riprendendo invece gli argomenti sociali e culturali che stanno oggi alla base dell’attenzione. La sua analisi, come si è già detto, si intreccia con la questione della modernità. E non potrebbe essere altrimenti. Secondo Campo i regimi attentivi moderni sono caratterizzati da cinque opposizioni. Le elenco: orientamento al futuro contro possibilità riflessiva; ricerca di stimolazione contro anestetizzazione attentiva; novità contro déjà-vu; libertà contro normazione temporale; edonismo contro disciplina. Si tratta di opposizioni che convivono fra loro come in una gigantesca, ordinaria follia schizofrenica. Campo le interpreta dialetticamente: “questi elementi in contraddizione tra loro possono essere pensati come poli di una tensione dialettica che non produce alcuna sintesi: le forze che li animano si scontrano continuamente e i loro equilibri di potere variano molto a seconda dei contesti e dei periodi storici” (p. 181). La prima opposizione, per esempio, descrive molto bene la nostra situazione attuale. Se l’orientamento al futuro si oppone alla possibilità riflessiva, ecco che il futuro diventa la ricerca incessante del nuovo, magari attraverso lo choc di cui parla Benjamin (molto presente in questo lavoro), che, in contrasto con la possibilità riflessiva, nasconde quel che del futuro incombe davvero su di noi, come le catastrofi ambientali o le nuove epidemie, negandoci la possibilità di immaginare un domani diverso. Cosa accadrà quando usciremo dal coronavirus? Metteremo in gioco la possibilità calma di un futuro diverso oppure faremo come il cappellaio matto di Alice, per il quale non c’è tempo, e ritorneremo alla ansiosa e ansiogena ricerca del nuovo e dello choc? Torneremo cioè alla ricerca di cambiamenti deboli, come appunto aveva già rilevato Benjamin, che confermano il già dato. E il già dato, riflettendoci, lo sappiamo, è la catastrofe sociale e ambientale. Riprendendo le teorie del sociologo Alfred Schutz, studioso tanto importante quanto semidimenticato, influenzato, tra gli altri da Husserl e da William James, Enrico Campo si pone il problema delle cornici sociali, dei contesti, dei mondi intermedi, insomma dei confini tra mondi che apprendiamo sin da bambini ad attraversare. Questo problema segnò la sorte del prigioniero liberato della caverna di Platone, l’attraversatore di confini e di mondi, il cui grande vantaggio cognitivo oltre che sociale e politico, è quello di poterne comparare almeno due, quello delle ombre della caverna e quello della luce del sole. Per lui, come per i gattini che giocano alla lotta e i bambini che giocano a fare i soldati, l’attenzione è nel passaggio da un mondo all’altro, senza che il mondo abbandonato sparisca, così come rimane la cornice, quella che continuiamo a vedere mentre guardiamo un quadro ed entriamo nell’universo della rappresentazione pittorica. L’inconscio freudiano che in Benjamin diventa l’inconscio ottico (il cinema), con Yves Citton, facendo riferimento alla condizione odierna fatta di dispositivi come gli smartphone ma anche di Google e di Facebook, diventa l’inconscio tecnologico. Campo propone di “riservare l’espressione ‘inconscio esteso’ per riferirsi in particolare agli strumenti digitali che hanno come caratteristica peculiare quella di anticipare le nostre scelte e i nostri desideri grazie all’elaborazione automatica di dati da noi prodotti, per cui noi siamo, rispetto ad essi, in costitutivo ritardo” (p. 220).
Enrico Campo lancia l’allarme in rapporto al fatto che i mass media parlano di crisi dell’attenzione ma, nello stesso tempo, si entusiasmano per l’“uomo multitasking”. Quest’ultimo non è il ritorno agli Indiani americani descritti da Adam Smith in opposizione agli operai delle manifatture occidentali, perché, per l’attuale uomo multitasking, “il problema dell’attenzione riguarda la nostra autonomia, individuale e collettiva, e dunque i modi e le forme della soggettivazione, ovvero le modalità attraverso le quali ci costituiamo come soggetti”. Insomma, le mille luci, gli avvisi, i segnali, i suoni che ci circondano e cercano di attirare la nostra attenzione in un mondo in cui non solo la merce entra in scena e si fa spettacolo, ma diventa la nuova immane caverna platonica: in questo mondo noi, liberamente, ci incateniamo per essere spettatori solitari nella folla e prestare attenzione a ogni cosa che ci fa dimenticare di noi stessi. Oggi le luci sono le nostre ombre.