«Lo storico della filosofia», nota Carlo Altini nella sua introduzione a questa raccolta di saggi straussiani, «ha un raro privilegio: dialogare con i filosofi del passato, ascoltando le loro voci e facendo rivivere i loro pensieri». Di tale privilegio – di cui già parlava Machiavelli nella sua celebre lettera a Francesco Vettori del 1513 – può ora godere chiunque si immerga nella lettura di questa antologia, che presenta tre scritti, finora inediti in lingua italiana, dedicati da Leo Strauss al pensiero di al-Fārābī e composti nell’arco di un ventennio: Alcune osservazioni sulla scienza politica di Maimonide e di al-Fārābī, uscito in francese nel 1936 per la «Revue des Études Juives»; e due articoli, entrambi redatti in inglese, Il Platone di al-Fārābī, pubblicato nel 1945, e Come al-Fārābī interpreta le «Leggi» di Platone, apparso nel 1957.
L’interesse per l’opera di al-Fārābī attraversa larga parte del percorso intellettuale di Strauss, prendendo avvio dalla fine degli anni Venti durante la redazione della Critica della religione in Spinoza (1930) e sviluppandosi in corrispondenza con l’analisi del problema teologico-politico. Il rifiuto della ragione di matrice illuministica e insieme dell’ortodossia religiosa, che hanno condotto la filosofia al nichilismo e al relativismo, induce Strauss a recuperare modelli speculativi differenti (soprattutto Platone, al-Fārābī, Maimonide) nel tentativo di fondare un nuovo razionalismo, capace di rispondere alla crisi della modernità e dei suoi fondamenti. In tale ottica, la ricostruzione del pensiero di al-Fārābī è riconosciuta di capitale importanza non soltanto perché quest’ultimo è l’iniziatore della filosofia nell’ambiente arabo-islamico, ma anche e soprattutto perché è un interprete innovativo della tradizione platonica e aristotelica. Dalla sua esegesi dei testi antichi derivano le numerose traiettorie della riflessione filosofico-politica premoderna, comprese quelle dei falāsifa e di Maimonide.
All’interno del complesso itinerario di lettura che Strauss compie sui testi di al-Fārābī, possono essere individuati due momenti distinti, seppur strettamente intrecciati: il primo, che si articola dal 1928 al 1936, e il secondo, che si dispiega dal 1939 al 1957. Anzitutto, nella transizione tra questi due momenti, cambiano gli scritti che Strauss prende in considerazione: nella prima fase, insiste soprattutto sul Libro dell’ordinamento politico e sulle Opinioni degli abitanti della città virtuosa; nella seconda, invece, si sofferma sul Compendium Legum Platonis e sul De Platonis philosophia. Cambiano quindi gli aspetti del pensiero farabiano che sono posti in risalto: all’inizio, al-Fārābī è attento alle relazioni tra filosofia e rivelazione e appare agli occhi di Strauss come un filosofo scettico moderato, per il quale il volgo non può accedere direttamente alle verità teoretiche, ma deve essere guidato da una figura profetica, che coincide con il filosofo-re platonico. In seguito, al-Fārābī preferisce concentrarsi sul rapporto tra filosofia e città, ingaggiando un serrato confronto con un autore che più di altri nell’antichità aveva trattato questo argomento, Platone. È proprio in questa fase che al-Fārābī adotta, per Strauss, uno scetticismo radicale, alternando simulazione e dissimulazione e utilizzando schemi esoterici.
Come mostra Altini, lo spartiacque tra questi due momenti è segnato dall’elaborazione, da parte di Strauss, della teoria della scrittura reticente, uno strumento che offre ai filosofi un doppio servigio, in quanto permette di difendersi da un’eventuale persecuzione politica e religiosa e al tempo stesso consente di ovviare ai limiti della scrittura stessa, proponendo a pubblici diversi contenuti diversi. Sebbene introdotta agli inizi degli anni Trenta, in riferimento al tema della «nobile menzogna» in ambito politico, è soltanto alla fine di quel decennio che la teoria è utilizzata per esaminare con sistematicità le opere filosofiche. L’interpretazione degli scritti di al-Fārābī non sfuggono all’impiego di questo metodo. Strauss intraprende con acribia il loro studio, soffermandosi sulla loro forma letteraria e sul loro stile, rilevando le contraddizioni e le ambivalenze che li caratterizzano e isolando le ricorrenze, o le assenze, di termini e concetti.
Proprio servendosi di questa specifica lente, nell’articolo intitolato Il Platone di al-Fārābī, Strauss nota come nel De Platonis philosophia non sia menzionato un argomento decisivo, quale l’immortalità dell’anima. Questa scelta appare sorprendente per almeno due motivi: anzitutto, lo scritto farabiano è dedicato alla ricognizione «dall’inizio alla fine» della filosofia platonica e contiene peraltro i sommari del Gorgia, del Fedro, del Fedone e della Repubblica; inoltre, in contesti differenti, al-Fārābī si occupa del destino oltremondano dell’anima e lo fa o in modo conforme alla fede religiosa, come nel caso del Libro della religione, o in modo perlomeno tollerabile, come accade nel Libro sull’ordinamento politico.
Come è possibile spiegare questa apparente contraddizione? La risposta di Strauss è che, poiché nel Libro della religione e nel Libro sull’ordinamento politico al-Fārābī si propone di riportare le proprie opinioni, è indotto per ragioni di prudenza a ripiegare su posizioni pubblicamente accettabili. Al contrario, nel De Platonis philosophia, in cui illustra le opinioni di un autore antico, «si avvale della speciale immunità del commentatore» per manifestare il suo autentico punto di vista, il che gli permette di giudicare prive di fondamento le credenze nell’«altra vita» e nell’«altro mondo».
Un’ulteriore ambiguità rintracciata da Strauss riguarda il trattamento che al-Fārābī riserva al rapporto tra filosofia e felicità. Questa volta si tratta di una contraddizione tutta interna al De Platonis philosophia, nel corso del quale vengono presentate due opinioni incompatibili, a uno sguardo superficiale. Da una parte, la filosofia è considerata la sola condizione per raggiungere la felicità e la perfezione dell’uomo: si può essere felici e perfetti, dice al-Fārābī, anche vivendo in una comunità politica imperfetta. Dall’altra parte, si distingue tra felicità e perfezione e tra i mezzi per ottenerle: per essere perfetti basterebbe la filosofia, mentre per ambire alla felicità si avrebbe bisogno di un «supplemento», derivante dal «giusto modo di vita», ovvero dall’esercizio del governo dei filosofi. La prima affermazione, che preclude «una concreta prospettiva di felicità alla grande maggioranza degli uomini», riflette la vera opinione di al-Fārābī, mentre la seconda ipotesi non è che una «soluzione provvisoria», meno insidiosa per l’incolumità del filosofo. Tuttavia, avverte Strauss, anche in questa circostanza al-Fārābī subordina la religione e la rivelazione alla politica, segnando uno scarto rispetto al resto della sua produzione.
Sempre a partire dalla teoria ermeneutica della scrittura tra le righe deve essere compreso il giudizio espresso da al-Fārābī su quelle che vengono definite la «via di Socrate» e la «via di Platone». Guardando alla filosofia come ricerca della giustizia e della verità, Socrate si sarebbe trovato di fronte a un’alternativa radicale: conformarsi alle opinioni della città e quindi salvaguardare la propria vita o rifiutarle e quindi esporsi al pericolo di una condanna. La sua intransigenza lo avrebbe indotto a quest’ultima scelta. Memore dell’esemplare vicenda socratica, Platone avrebbe deciso di tentare una strada diversa, di compromesso, prendendo le mosse dall’assunto che la filosofia è un’arte eminentemente teoretica, il cui scopo è interrogarsi sulla natura degli esseri. In tal modo, da un lato avrebbe riconosciuto al filosofo una funzione di critica nei confronti delle convenzioni politiche e religiose dominanti, ma dall’altro lato l’avrebbe esortato ad agire politicamente con cautela, grazie anche a un uso accorto della retorica (la cosiddetta «via di Trasimaco»), indispensabile per non entrare in conflitto con coloro che non sono filosofi.
A detta di Strauss, quindi, il Platone descritto da al-Fārābī avrebbe colto un aspetto decisivo: il pensiero filosofico deve essere libero e indipendente, deve mettere in questione tutto ciò che deriva dall’autorità e dalla tradizione, ma la sua manifestazione pubblica deve essere regolata da criteri di prudenza. Soltanto così, l’esercizio della filosofia non rischierà di essere bandito dalla comunità cittadina e a sua volta il filosofo non sarà oggetto di persecuzione.