Ogniqualvolta nel dibattito culturale si evocano gli spettri della modernità e della postmodernità le semplificazioni appaiono quasi inevitabili, probabilmente per la diffusa tendenza a operare secondo schemi e classificazioni che, anziché facilitare la comprensione del quadro, spesso lo complicano inutilmente, quando non lo travisano in modo più o meno intenzionale. Per cercare di fare chiarezza e sgombrare il campo da equivoci e malintesi, per i quali la modernità non sarebbe altro che elogio del soggetto e della ragione e la postmodernità una salutare opera di demolizione dei suoi miti, in questo suo libro Elio Franzini accompagna il lettore lungo i tortuosi percorsi dei due concetti senza rinunciare ad esprimere il proprio punto di vista. Anzitutto Franzini propone una genealogia di queste categorie, a partire dalla duplice origine della modernità: da una parte, Descartes con la sua volontà di costruire un mondo nuovo, rappresentandolo con un linguaggio originale che intende abbandonare i modelli letterari ed educativi degli antichi per volgersi all’esperienza; dall’altra parte, Vico con la sua attenzione al verosimile, alla storia e alle forme fantastiche e retoriche del pensiero, oltre che con la sua rivalutazione del ruolo conoscitivo del mito. Non si tratta, afferma Franzini, di riconoscere qui una «dicotomia» alla sorgente della cultura europea tra Seicento e Settecento, quanto di segnalare l’«ambivalenza simbolica» su cui si fonda il moderno: Descartes e Vico rappresentano due possibili punti di avvio della modernità da leggere non in antitesi, come troppo spesso si è fatto, ma in costante e fecondo dialogo tra loro e, almeno, con Montaigne e Bacon. Senza questa dialettica di fondo non sarebbe infatti comprensibile la prima significativa occasione di sviluppo della modernità stessa, individuata nella querelle des anciennes et des modernes e destinata ad assumere un valore esemplare ben al di là del contesto storico della corte francese e degli ambienti delle Accademie in cui fu elaborata. L’obiettivo che perseguono i due “schieramenti”, come mette in luce Franzini richiamandosi soprattutto al lavoro di Marc Fumaroli, Le api e i ragni (2005), è simile – individuare nelle arti e nella letteratura regole che permettano di ridurre il dominio soggettivo delle passioni, trasformandosi in qualcosa di oggettivo e formale –, ma la risposta a cui giungono è opposta: il modernista Charles Perrault ritiene che queste regole siano contingenti, legate necessariamente ed esclusivamente al periodo in cui vengono messe a punto; per l’antichista Nicolas Boileau, invece, solo il passato può legittimare il presente e, grazie all’esercizio della memoria, si può giungere alla formulazione di princìpi “eterni”. L’importanza della controversia risiede soprattutto nell’aver posto le basi per l’estetica moderna, con la definizione e la valorizzazione dei concetti di giudizio e gusto. Nelle Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura del 1719 Du Bos potrà così superare la distinzione tra arte antica e moderna, sostenendo che la vera classicità consiste nel saper coniugare regole ed emozioni, ovvero nel sublimare il disordine delle passioni nell’armonia della forma e nell’instaurare un rapporto “sentimentale” tra l’opera e il suo fruitore.
Una lezione per il neoclassicismo, e per Lessing in particolare, ma anche per l’illuminismo e per quello spirito enciclopedico che Franzini identifica come seconda fase rilevante nella traiettoria della modernità. Facendo propria l’esaltazione della libertà di pensiero di Bayle e la concezione baconiana della filosofia come interpretazione della natura anche in termini di prassi, il progetto di Diderot e d’Alembert mira a costruire un sistema delle conoscenze aperto e collettivo, animato da una forte tensione etico-politica, vale a dire la fiducia che il rinnovamento del sapere possa garantire la felicità dell’uomo. Se questa attitudine sarà ben presto oggetto di critiche, come quelle formulate da Hegel (che vede all’opera nell’illuminismo una coscienza inquieta e uno spirito estraniato da sé), è indubbio che nei secoli successivi il Settecento sarà sempre più considerato il momento fondativo della modernità, che deve essere di volta in volta rifiutato, ripensato, superato. Ne L’epoca dell’immagine del mondo (1938) Heidegger scorgerà nell’illuminismo il dominio della scienza e della tecnica, della cultura umana e della «sdivinizzazione», cioè della sostituzione degli dèi con la «ricerca storiografica e psicologica sul mito». In breve, la modernità illuministica sembra portare a compimento il primato della rappresentazione, che tende a ridurre il mondo all’insieme di enti concepiti e ordinati da un soggetto, comportando l’oblio dell’Essere e della sua verità. Ma già nel 1919 Valéry, autore molto caro a Franzini, aveva decretato l’estinzione della moderna civilizzazione europea. Ne La crisi dello spirito – ora disponibile in una nuova traduzione italiana a cura di Massimo Carloni all’interno di un’edizione dal titolo In morte di una civiltà. Saggi quasi politici del catalogo dell’editore Nino Aragno, che raccoglie articoli, conferenze e lettere (2018) – il poeta francese aveva infatti lucidamente individuato nello scoppio della Grande guerra un punto di svolta determinante. A causa della tirannia delle differenze, riscontrabili nei principi e nelle idee di «tutti gli spiriti colti» e incapaci di comporsi in una qualche, pur residuale, unità, l’Europa del 1914 era giunta ai limiti del modernismo: «Ogni cervello d’un certo rango era un crocevia per tutti i generi d’opinione; ogni pensatore un’esposizione universale di pensieri. Vi erano opere dello spirito la cui ricchezza di contrasti e d’impulsi contraddittori ricordavano gli insensati effetti luminosi delle capitali dell’epoca: gli occhi bruciano e s’annoiano…». È nell’analisi di Valéry – così come nelle riflessioni di Baudelaire, Simmel e Benjamin su metropoli e moda, nelle esperienze delle avanguardie storiche, nell’antropologia filosofica di Gehlen e nella teoria critica della Scuola di Francoforte – che si inscrive allora l’origine del postmoderno, nonostante il termine venga effettivamente coniato alla fine del secondo conflitto mondiale in ambito architettonico (l’articolo The Post-Modern House di Joseph Hudnut è del 1945) per poi essere adottato dalla critica letteraria (si pensi agli studi di Ihab Hassan). Fino a quando nel 1979 Lyotard ne offre una prima, fortunata definizione come fine delle grandi narrazioni. Da allora ha inizio una storia a dir poco articolata, che Franzini analizza con acribia e precisione, seguendo le molteplici ramificazioni che la compongono, tra le quali il decostruzionismo e il pensiero debole, ma anche percorsi intellettuali difficilmente inquadrabili, come quelli di Deleuze e Derrida. Orientamenti che spesso operano attraverso l’uso incrociato di coloro che Ricoeur aveva definito i «maestri del sospetto» (Marx, Nietzsche, Freud) e che risentono variamente dell’influenza dell’ermeneutica, della cosiddetta svolta linguistica, della psicoanalisi, anche nella sua versione lacaniana, e della fenomenologia. Quello che emerge in tutti questi contesti è la difficoltà nel confrontarsi in modo davvero risolutivo con il moderno – talvolta si ha l’impressione che si accettino le sue stesse logiche e ci si muove in un medesimo orizzonte concettuale – nonché il carattere, talvolta orgogliosamente rivendicato, di frammentarietà, incompiutezza e dispersione del senso. Il postmoderno non si presenta come uno «stile», ma piuttosto come una «strategia interpretativa», un «rizoma» per dirla con Deleuze e Guattari, che si alimenta del rapporto tra culture: se, spiega Franzini, la Tour Eiffel è unanimemente ritenuta il simbolo della modernità per via della sua «forza iconica», si cercherebbe invano un equivalente artistico, dotato della stessa efficacia rappresentativa, per la postmodernità.
Ecco dunque che, messe al bando le polemiche, la diatriba tra moderno e postmoderno nasconde una questione ben più ampia e decisiva, ovvero il ruolo della filosofia e del pensiero nella società contemporanea. Un quesito che è possibile affrontare solo a due condizioni, avverte Franzini: da un lato, sbarazzarsi dell’idea che il moderno sia un blocco monolitico per comprendere che al suo interno convivono anime differenti (l’elogio della tecnica, ma anche i limiti e i rischi del progresso scientifico; l’esaltazione della ragione, ma anche l’irrazionalismo); dall’altro, liberare il postmoderno dalle «banalità» che spesso lo circondano, legate, soprattutto nei decenni passati, a settarie appartenenze politiche e ideologiche. In breve, è necessario prendere coscienza che «i giudizi teorici sui fenomeni storici sono processi lenti e faticosi, che non tollerano la velocità, così come l’assoluzione o la condanna». E probabilmente non tollerano nemmeno il «compromesso», come ricordava Paolo Rossi, quando nel 1988 esortava a non cedere alla tentazione salomonica dell’Università di Tubinga, che nel 1496 aveva deciso di ripartire equamente le quattro cattedre della facoltà, assegnandole due agli antichisti e due ai modernisti. Se si è disposti a riconoscere, sulla scorta di Rossi, che «varietà, instabilità e discordanze» sono un tratto fisiologico e non patologico della storia delle idee, si potrà iniziare quindi a fare davvero i conti con il passato per provare di nuovo a interrogarsi kantianamente sulle condizioni di possibilità e sui limiti della conoscenza umana.