Approfondendo la riflessione avviata con Povertà e leadership nel tardo impero romano e proseguita con Per la cruna di un ago e Il riscatto dell’anima, in questo suo recente lavoro, pubblicato originariamente nel 2016, Peter Brown si propone di analizzare la figura del “povero santo”, di colui cioè che in cambio di un sostegno materiale in termini di cibo, vestiti e riparo assicurava ai laici insegnamenti, preghiere e intercessioni presso il divino. A differenza di quanto era accaduto nelle precedenti ricerche, l’attenzione dello studioso irlandese non si concentra sull’Occidente latino, ma sull’Oriente greco della tarda antichità, e in particolare su quel contesto siriaco ed egiziano a cui è riconosciuto un ruolo determinante nell’elaborazione della cultura religiosa cristiana sia a livello locale sia nell’ottica dei rapporti con la civiltà ellenistica. A fare da sfondo all’intera trattazione stanno due diversi modi di intendere la povertà e la ricchezza nei testi neotestamentari, che di fatto costituiscono la base della maggior parte delle discussioni successive. Da una parte, troviamo l’esortazione rivolta da Gesù ai suoi discepoli perché non accumulino tesori sulla terra, esponendoli all’azione della tignola e della ruggine e alle cattive intenzioni dei ladri, ma puntino a garantirsi tesori in cielo (Mt 6,20-21), e quella al giovane ricco affinché, per unirsi alla sequela, doni ai poveri tutto ciò che possiede, anche in questo caso in vista di una ricompensa celeste (Mt 19,21). L’appello alla rinuncia ai propri averi non è certo un’idea esclusiva del cristianesimo (la si ritrova, ricorda Brown, anche nel Talmud di Gerusalemme, laddove si parla del re ebreo di Adiabene, Monobazo, vissuto nel I secolo d.C.), ma colpì già i contemporanei per il suo carattere radicale. La carità verso i mendicanti – in quanto atto altruistico puro e gratuito, capace di mettere in comunicazione realtà apparentemente incommensurabili e distanti come il cielo e la terra, la povertà e la ricchezza – si opponeva ai princìpi di reciprocità su cui poggiavano la società greca e quella romana e per questo aveva sempre destato sospetti e diffidenze al punto da essere considerata un vero e proprio presagio di morte, come accade nel Libro dei sogni di Artemidoro. Dall’altra parte, bisogna considerare le lettere paoline, in cui si introduce quello scambio spirituale che caratterizza il rapporto tra il povero santo e i laici – «Se noi abbiamo seminato in voi le cose spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo beni materiali?», si legge nella Prima lettera ai Corinzi (9,11) – e si discute ampiamente di collette destinate al sostentamento delle prime comunità cristiane e al regolare svolgimento delle loro attività religiose. La costante riflessione sul denaro e sui suoi usi espose Paolo a feroci critiche da parte degli ambienti pagani, di cui egli stesso dovette essere consapevole, e per le quali l’autore degli Atti degli Apostoli (20,33-35) escogitò una sorprendente risposta. Luca afferma infatti che, incontrando i membri della Chiesa di Efeso, Paolo ricordò di non aver mai accettato oro e argento e mostrò loro le mani proprio per indicare che aveva continuato a lavorare per sopperire alle necessità sue e di coloro che lo seguivano. Nonostante la chiamata divina, era riuscito cioè a combinare l’attività missionaria con l’impegno concreto in favore dei deboli. Del resto, lo stesso apostolo non aveva forse scritto: «Perché anche quando eravamo con voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, non mangi» (2 Ts 3,10)?
A partire dalle parole gesuane e dalle epistole di Paolo ha origine nella tarda antichità un complesso, e mai realmente sopito, dibattito su chi fossero i poveri santi a cui destinare l’elemosina e sulla gestione stessa delle elargizioni. Questioni di non facile risposta, la cui complessità era acuita dal fatto che venivano affrontate in un periodo durante il quale si ponevano le fondamenta della professionalizzazione del clero e della costruzione delle gerarchie ecclesiastiche. La Didascalia apostolorum, ad esempio, testo siriaco che risale al 220 d.C., vieta ai fedeli di distribuire direttamente le proprie offerte e li invita a lasciarle sull’altare della chiesa, in modo tale che sia il vescovo a individuare i più bisognosi e ad assegnarle attraverso il servizio di diaconi e sacerdoti. I nomi dei benefattori, prosegue il testo, non devono essere comunicati all’intera comunità, ma resi noti in segreto solo ai poveri, affinché questi possano ricordarli nelle loro orazioni. Un ingegnoso stratagemma per evitare la vanagloria dei donatori e non suscitare pericolose forme di dipendenza tra indigenti e benestanti.
Queste tensioni costituiscono il retroterra dal quale Brown muove per rileggere la contrapposizione che ebbe luogo tra il IV e il V secolo e che coinvolse le comunità religiose siriache ed egiziane – non soltanto i monaci, ma anche asceti e gruppi radicali che percorrevano quelle regioni – a proposito del lavoro e del rapporto tra poveri e ricchi. In Siria, ovvero in quella vastissima area che si estendeva dall’Iraq alla Turchia orientale, arrivando a sud fino ad Israele e alla Giordania, era piuttosto diffuso il rifiuto del lavoro, espresso in nome di motivazioni differenti. In primo luogo, il lavoro poteva essere assimilato negativamente alla fatica e considerato una vera e propria maledizione che gravava come un peso insopportabile sull’umanità. Il trattato noto nella traduzione latina come Liber graduum redatto agli inizi del V secolo fornisce a tal proposito un’originale interpretazione della storia di Adamo ed Eva, tesa a legittimare il comportamento dei perfetti che erano assistiti grazie alle sovvenzioni dei laici. Prima della caduta, Adamo ed Eva avrebbero vissuto senza altra occupazione che non la preghiera e la contemplazione incessante di Dio: la loro era la «fatica degli angeli», non quella penosa che dovevano sopportare i contadini mediorientali. La ribellione nei confronti di Dio non sarebbe stata motivata dal desiderio di attingere all’albero della conoscenza, ma da quello ben più pericoloso dal punto di vista sociale di diventare proprietari terrieri, di possedere ed esercitare il proprio dominio sul giardino dell’Eden e non essere più costretti a servire il loro Signore. Questa lettura della Genesi consentiva all’autore del Liber graduum di considerare l’ozio dei perfetti come una positiva sovversione dell’ordine perverso che si era instaurato nelle società umane dopo la cacciata dall’Eden. Gli effetti negativi della caduta erano così mitigati dall’inazione dei perfetti che, conducendo una vita a somiglianza degli angeli, assicuravano a tutti gli altri la possibilità di godere di nuovo dei piaceri del paradiso perduto, benché in modo temporaneo e parziale. Se per il Liber graduum il mondo si era corrotto a causa dell’ambizione umana, per i manichei la depravazione della materia era l’effetto stesso della sua creazione da parte di demoni malvagi. La rinuncia al lavoro da parte di alcuni settori della popolazione si inseriva qui in una radicale svalutazione del mondo e al tempo stesso garantiva il funzionamento delle comunità manichee, caratterizzate dalla collaborazione tra gli eletti o perfetti, che dovevano astenersi dai rapporti sessuali, seguire rigide abitudini alimentari e dedicare gran parte della loro giornata alla preghiera, non potendo coltivare la terra né raccogliere e cucinare i suoi frutti, e i catecumeni, detti anche uditori, che preparavano i pasti per loro e li aiutavano attraverso elemosina e donazioni, guadagnandosi così la via verso la salvezza: «Ciascuno dona all’altro dai propri copiosi averi: gli eletti donano agli uditori dai loro tesori celesti, e gli uditori donano agli eletti dai loro tesori terreni», sostiene il Codex Thevestinus, composto negli anni Settanta del III secolo. La ricchezza non era pertanto considerata un dono concesso da Dio ai ricchi per farne buon uso, ovvero per soccorrere chi ne aveva bisogno, restituendo ciò che si era altrettanto gratuitamente ricevuto, ma piuttosto una porzione di materia che veniva sottratta alla generale malvagità e immessa in un processo virtuoso di trasformazione che doveva concludersi con la fondazione di una riserva di «tesori in cielo», espressione che ricorre con una certa frequenza nelle fonti. In ogni caso, rinunciare al lavoro significava porsi in contrasto con il tumultuoso sviluppo agricolo che stava caratterizzando l’area siriaca.
La riflessione sviluppata dai monaci d’Egitto si muoveva in tutt’altra direzione poiché il lavoro non era da loro affatto assimilato a una condizione degradante o svilente per l’uomo. Semmai, nota Brown, erano le carestie, legate al discontinuo corso del Nilo, a preoccupare gravemente le popolazioni locali. Gran parte dei documenti giunti fino a noi tendono infatti a presentare il monaco del deserto egiziano come un individuo autosufficiente, capace di provvedere a se stesso grazie a un’occupazione indipendente dai ritmi delle stagioni e non troppo gravosa sul piano fisico: i monaci coltivavano i loro orti, partecipavano al raccolto annuale, pratica che del resto coinvolgeva larga parte della popolazione, e utilizzavano materiali grezzi (paglia, giunchi e fronde di palme) per produrre oggetti intrecciati quali canestri e corde. Un lavoro astratto, posto fuori dal tempo degli uomini e della natura e quindi potenzialmente infinito; il suo scopo, tuttavia, non era soltanto provvedere alla sussistenza, ma anche consentire la produzione di un surplus che veniva in parte indirizzato ai loro seguaci e ai loro compagni, in parte ai poveri, sopperendo così alle carenze del sistema assistenziale allestito dalle Chiese e dai vescovi. L’immagine del monaco laborioso trova una prima, autorevole, elaborazione nella Vita di Antonio composta dal vescovo di Alessandria Atanasio nel 357, per poi essere costantemente ribadita nei secoli successivi (come dimostrano le opere di Epifanio di Salamina, Girolamo, Agostino e Palladio), fino a raggiungere un brillante e polemico compendio negli Apophthegmata Patrum della seconda metà del V secolo. Un giorno Giovanni Nano confidò a un suo fratello maggiore di «voler essere libero da ogni preoccupazione, come lo sono gli angeli». Gettato via il proprio mantello, si ritirò allora nel deserto. Qualche tempo dopo però tornò indietro e bussò alla porta del vecchio compagno: «”Chi sei?”. Disse: “Sono io, Giovanni, tuo fratello!”. Ma l’altro replicò: “Giovanni è divenuto un angelo, non è più tra gli uomini”. Giovanni supplicava: “Sono io”, ma il fratello non gli aprì e lo lasciò tribolare fino al mattino. Infine lo fece entrare e gli disse: “Sei un uomo, devi ancora lavorare per vivere”. Allora si prostrò e disse: “Perdonami”». L’assimilazione tra monaco/perfetto e angelo, proposta dalla cristianità siriaca, era qui rifiutata senza appello in favore della necessità del lavoro. Certo, avverte Brown, non bisogna dimenticare che lo studioso contemporaneo è costretto ad ancorare le proprie deduzioni quasi esclusivamente a testimonianze scritte e a un numero molto limitato di reperti archeologici. Tuttavia, nonostante la scarsità delle fonti e il loro orientamento per così dire ideologico, non si può affermare in modo semplicistico che l’immagine del monaco egiziano dedito al lavoro fosse soltanto una costruzione retorica. Doveva esserci una qualche continuità tra i testi e la condotta di vita di chi li componeva o leggeva, dal momento che si poteva incoraggiare il rispetto di alcuni comportamenti, inibendone invece altri. Non che in Egitto il lavoro fosse considerato un’occupazione piacevole. Anche qui era giudicato un fardello, ma proprio per questo i monaci dovevano condividerlo con tutti i loro fratelli, esponendo anche il loro corpo al dolore e alla sofferenza. Col tempo, il modello egiziano si sarebbe imposto su larga scala, anche grazie alla sua adozione nelle regole monastiche occidentali, quella di Benedetto su tutte. Prima che ciò accadesse, però, come emerge dal libro di Brown, in Siria e in Egitto si svolsero animati dibattiti su povertà e ricchezza, lavoro e ozio, che andavano ben al di là della sfera meramente religiosa e spirituale perché riguardavano l’accettazione e la contestazione di quei valori materiali e secolari sui quali si fondavano le società del mondo tardoantico.