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Che vita facevano i nostri antenati africani? Se la passavano male, direi. Non erano in grado di produrre o di conservare il cibo; l’agricoltura l’abbiamo scoperta solo 10.000 anni fa. Andavano in giro, a caccia; quando riuscivano a uccidere un animale, o a raccogliere qualche frutto o qualche tubero, mangiavano; quando non ci riuscivano saltavano il pasto, e tutto lascia credere che questa fosse più la regola che l’eccezione.
Ci sono ancora popolazioni (pochissime, in Africa, in Nuova Guinea e nell’America del Sud) che vivono in questo modo, di caccia e raccolta. Sono nomadi o semi-nomadi: i cacciatori-raccoglitori non stanno mai fermi, quando hanno esaurito le risorse di una certa zona si spostano da un’altra parte. I nostri antenati africani si spostavano per cercare posti migliori o per sfuggire ai pericoli, che erano molti: incendi della savana, alluvioni, eruzioni. E poi c’erano i grandi predatori: leopardi, leoni, felini abili nella caccia. Abbiamo rischiato di estinguerci più volte perché eravamo pochi. Eravamo ben organizzati, ci si aiutava a vicenda, ma gli antropologi ci dicono che per molto tempo più che cacciare in proprio, cosa che non ci veniva tanto bene, abbiamo cercato di approfittare delle prede uccise dai grandi predatori. Non era semplice ammazzare un elefante; se però lo faceva un leone attaccandolo in gruppo magari riuscivamo a farlo scappare e a sottrargli qualcosa da mangiare, un po’ come fanno le iene.
Dicevamo che la caratteristica di queste popolazioni era quella di spostarsi di continuo. Non disponevano di mappe, andavano dove gli capitava, scappavano dai posti dove se l’erano vista brutta. E così, intorno ai 70.000 anni fa, occupano una regione dell’Africa più vasta. (…) Quindi, quando forse 60.000 anni fa qualcuno passa dall’Africa in Palestina, non si tratta di gente che rappresenta, in piccolo, tutta la popolazione africana e tutta la sua diversità genetica, ma di un gruppo settentrionale, un po’ diverso dagli altri. Col passaggio nel Vicino Oriente, però, cambia molto. Il clima è più temperato e ci sono tante piante, tanti animali: tante risorse. In più, la regione è sostanzialmente spopolata. È vero, c’è qualche Neandertal, ma i Neandertal, a quanto pare, sono persone perbene e ce ne sbarazziamo molto rapidamente, dopo qualche contatto che può aver portato a incorporare pezzetti dei loro genomi nei nostri.
A questo punto succede una cosa che Darwin aveva previsto – lui che non conosceva nessun fossile africano, lui che non aveva idea che esistesse il DNA, lui che sapeva a malapena cosa sono le proteine. Darwin scrive: se una popolazione arriva in una regione dove ci sono tante risorse, la mortalità infantile si abbassa e la vita media si allunga. In queste condizioni, è maggiore il numero di bambini che arrivano all’età della riproduzione (molto precoce a quei tempi, pensiamo già intorno ai 15 anni) e lascia figli i quali a loro volta avranno una maggiore probabilità di farcela a riprodursi e lasciare altri figli. Così, un po’ alla volta, la popolazione cresce di dimensioni e si espande alla ricerca di nuovi territori in cui ci siano risorse per tutti. È quello che dev’essere successo. Ma attenzione, quelli che lasciano così tanti discendenti non sono tutti gli africani: solo una parte di loro si avvantaggia delle risorse nel nuovo territorio e trasmette ai discendenti i propri geni. Quindi, quando arriviamo a 30.000 anni fa, la Terra è occupata in Africa da tanta gente diversa, e in Europa e in Asia dai tanti discendenti di alcuni africani, più qualche individuo con un genoma nuovo perché nel frattempo sono comparse nuove mutazioni.
Questo racconto è sicuramente semplificato in maniera brutale. Non c’è stata una sola migrazione dall’Africa 60.000 anni fa, e qualcuno ne è uscito ben prima, forse 100.000 anni fa, dirigendosi a est verso l’India, il Sud-Est asiatico, la Melanesia e l’Australia. Qualcuno di sicuro sarà tornato indietro, dall’Europa e dall’Asia. Probabilmente parecchie popolazioni si sono spinte in ambienti inospitali, o sono state vittime di eventi ambientali, e si sono estinte; altre si sono mescolate fra loro e hanno assunto caratteristiche intermedie, altre ancora sono rimaste isolate e hanno sviluppato caratteristiche peculiari, per esempio quelle che, nell’Himalaya, oggi dispongono di particolari adattamenti che permettono loro di vivere bene anche con poco ossigeno a disposizione. Durante le glaciazioni gli habitat disponibili si sono ridotti, poi il clima si è fatto più mite e qualcuno è tornato a ripopolare i territori più settentrionali. E poi, ma in tempi più recenti, 15.000 anni fa, qualcuno dall’Asia si è spinto nelle Americhe attraverso lo stretto di Bering, che all’epoca non era sommerso perché il livello del mare era più basso, e in un lasso di tempo sorprendentemente breve si è spinto sempre più a sud. Ancora più tardi qualcun altro, via mare, ha colonizzato l’Oceania.
La colonizzazione delle Americhe, dicevamo, è stata rapidissima, e ancora non capiamo bene come mai; sappiamo però che l’America del Sud non è stata colonizzata da gente arrivata dal Pacifico, per il semplice motivo che nel Pacifico l’umanità è arrivata molto tempo dopo. Gli studi più recenti sul DNA di alcuni individui preistorici europei indicano che la costituzione genetica della popolazione è cambiata diverse volte, e in modo particolare quando, intorno a 10.000 anni fa, con l’invenzione dell’agricoltura, si è cominciato a produrre più cibo e i portatori delle nuove tecnologie alimentari si sono espansi dal Vicino Oriente portando con sé la propria cultura, i propri geni e (forse) anche le proprie lingue.
(da G. Barbujani, Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo, Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. 114-118)*
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